C’è uno scandalo che è la misura di questo mondo: una fascia arcobaleno non indossata in una partita di calcio. E c’è uno scandalo che si preferisce non vedere: un mondo che va verso l’implosione, accecato da sette colori senza più luce.
di Domenico Airoma
Cos’è l’arcobaleno? È un ponte fra terra e cielo, l’irruzione della luce dopo il buio della tempesta, il gioioso arco che va a tuffarsi tra le nuvole rischiarate dal sole.
L’arcobaleno divenuto bandiera della postmodernità non è nulla di tutto questo.
È un ponte verso il nulla, perché ha chiuso il cielo. È un vicolo cieco, senza Dio, senza una traccia, un solco segnato entro cui far scorrere la libertà e orientarla verso l’infinito.
Sono solo colori messi l’uno accanto all’altro, come schizzi senza una tela ed una cornice che dia loro bellezza e significato; senza più né cielo né terra.
Sì, senza neppure la terra: perché la terra significa il richiamo del reale, del senso comune (“la casa paterna alla quale la filosofia torna, ciclicamente, sfinita e stanca”, nel brillante aforisma di Gomez Davila), e del senso del limite; perché la terra ha il colore della verità, perché la terra non mente, non nasconde il sacrificio, ma neppure i frutti, se meritati. Senza l’aggancio alla terra, l’arcobaleno è una finzione, poggiato sul nulla e verso il nulla, un arlecchinesco travestimento del nichilismo.
Ed infatti, l’arcobaleno è divenuto il simbolo di una pace senza giustizia, di una libertà senza responsabilità, di famiglie costruite sul desiderio degli adulti più che sul bene dei bambini, di un ambientalismo senza uomo, di un’umanità tanto sguaiatamente gaudente quanto disperatamente accompagnata, spinta al suicidio.
Rivogliamo l’arcobaleno, dunque, ma quello vero. Un arcobaleno a cielo aperto, davvero inclusivo, perché capace di non escludere il bianco ed il nero, il vero ed il falso, il giusto e l’ingiusto, sapendoli distinguere.
Desideriamo un mondo che si scandalizzi non per una fascia arcobaleno non indossata durante una partita di pallone, ma che provi disgusto per una modernità fatta di guerre, pandemie e carestie, di milioni di bimbi non fatti venire alla vita e di sofferenti persuasi a farsi da parte.
Per molti potrà sembrare un sogno; per alcuni, quorum ego, è un ideale; e, come insegna Gustave Thibon, non c’è nulla di più concreto e di meno astratto dell’ideale, se incarnato nella vita, se diventa il ponte fra cielo e terra.
Non importa se si è minoranza; importa non ritirarsi, non cullarsi in opzioni da francobollo identitario falsamente rassicuranti.
Importa operare perché si torni a guardare verso il cielo, ad orientare i singoli e le società verso l’infinito.
Con la speranza che l’arco colorato sia il segno della pace ritrovata fra la terra degli uomini ed il cielo di Dio.
Mercoledì, 23 novembre 2022