Pubblichiamo questo intervento del prof. Giancarlo Blangiardo, presidente dell’Istat, sui morti a causa del Covid 19 confrontati con i caduti durante la Seconda guerra mondiale. I numeri non sono tutto ma aiutano a capire la portata di quanto avvenuto da marzo 2020 in poi, evitando giudizi superficiali e approssimativi.Il quarto picco di mortalità nella storia demografica dell’Italia unita
Il quarto picco di mortalità nella storia demografica dell’Italia unita
Il bilancio demografico del 2020 ci presenta uno straordinario incremento del numero di decessi: un dato che non avremmo mai immaginato di vedere, o almeno non così presto. Nel corso dell’anno si sono contati ben 746 mila morti – 112 mila in più rispetto al 2019 – e si valuta che, a fronte dei circa 76 mila casi che il Sistema di Sorveglianza Nazionale integrata dell’Istituto Superiore di Sanità ha attribuito direttamente a COVID-19 si siano verificati 99 mila decessi aggiuntivi.
Un surplus calcolato con riferimento a quanto si sarebbe osservato in base ai livelli di sopravvivenza, ovviamente liberi dall’effetto della pandemia, relativi all’anno 2019.
Sono numeri che segnano un cambiamento impressionante, e lo sono ancor più se vengono visti nel quadro delle variazioni della frequenza annua di morti susseguitesi a partire dal primo bilancio demografico del 1862, all’indomani dell’Unità Nazionale.
I dati mostrano come, passando da un anno al successivo, solo tre volte si è avuta in Italia una crescita superiore alle 100 mila unità – al pari di quanto è avvenuto nel 2020 – e si tratta di esperienze che si perdono nella notte dei tempi. Si va dall’imperversare del “colera asiatico” nel 1867, con 137 mila morti in più rispetto al 1866, alle devastanti conseguenze del primo anno di conflitto nel 1915 (+171mila), sino alla terribile pandemia di “spagnola” nel 1918. Un anno, quest’ultimo, che segna un incremento di 334 mila morti (il più alto di sempre); oltre tutto rispetto a un drammatico 1917 che, già di suo, presentava una crescita significativa rispetto al 1916 (+96 mila). Ma eravamo, non a caso, al tempo di quella che è passata alla storia come la “Grande Guerra”!
Il nemico invisibile del 2020
Non così accade per il 2020. Un anno il cui bilancio demografico si colloca entro una cornice di pace, almeno se la si intende secondo l’usuale accezione di assenza di un conflitto armato. Tuttavia, di fronte alle circa 126 mila persone che a tutt’oggi risultano decedute per (o di) COVID-19 – dall’inizio della pandemia a fine maggio 2021 secondo i dati ufficiali – viene da chiedersi se esse non siano assimilabili ai caduti di una nuova guerra, certo non convenzionale ma non per questo meno cruenta. Una sorta di Terza Guerra Mondiale, ben più “mondiale” delle due precedenti, combattuta contro un nemico invisibile, che fa numerose vittime tra le persone e che, pur senza seminare distruzione, alimenta paura, insicurezza e genera gravi limitazioni alla nostra vita.
Chi, come nel mio caso, appartiene a una generazione che, per sua fortuna, non è mai stata coinvolta nei drammatici eventi bellici, si è trovato per la prima volta di fronte a una sequenza di bollettini con “il bilancio dei caduti”, qualcosa di cui non aveva mai avuto esperienza, e da cui ha colto, giorno dopo giorno, il macabro messaggio dei numeri.
Sino ad ora – per me così come (credo) anche per i miei coetanei – il tema della guerra era solo astrattamente presente nei racconti o delle rievocazioni legate a qualche ricorrenza. Rispetto all’ultimo conflitto mondiale – quello che da bambini sentivamo come il più vicino e ricco di testimonianze – si era tutt’al più avuto modo di seguire, ascoltandole direttamente dai protagonisti o leggendole nei libri di storia e nei romanzi, le vicende delle campagne di Grecia, d’Africa, di Russia. E se è possibile che, dai resoconti degli eventi di allora, si sia accreditata in alcuni di noi l’immagine di un’ecatombe di dimensioni epocali, viene da chiedersi ora se la stessa cosa non sia valsa, e valga tuttora, per quei bambini che assistono, in genere (fortunatamente) solo per via mediatica, alla lotta “all’ultimo vaccino” contro l’invisibile nemico COVID-19, con le sue continue e malefiche mutazioni.
Ora come (o più di) allora?
Proviamo dunque ad affidarci al sano realismo della statistica ufficiale per mettere in chiaro, anche in termini comparativi col passato, l’effettiva portata delle conseguenze più gravi – ossia il costo in vite umane – derivanti da ciò che stiamo vivendo dalla fine di febbraio dello scorso anno.
I dati di mortalità generale ci dicono che nell’arco di tredici mesi, da marzo 2020 a marzo 2021, si è assistito ad un aumento della frequenza di morti che, rispetto ai valori medi del quinquennio 2015-2019, risulta essere di 117 mila unità. Va da sé che con analisi più fini si potrebbe distinguere l’effettiva azione della pandemia, isolando i fattori “di disturbo” di vario genere e di segno opposto – i cambiamenti strutturali, le condizioni climatiche, così come l’effetto protettivo di nuovi comportamenti imposti o liberamente scelti, e così via – ma è innegabile che a fronte del dato cumulato sui decessi ufficialmente attestato, la semplice associazione statistica tra pandemia e picco di mortalità si trasforma in una vera e propria spiegazione “causale” del secondo ad opera della prima. Siamo dunque di fronte alla oggettiva certificazione di uno stato di guerra: proviamo a misurarne e a confrontarne le conseguenze.
In proposito, se andiamo ad osservare dopo quanti mesi durante l’ultima guerra mondiale si è raggiunto lo stesso numero di morti per cause belliche, tra militari e civili, equivalente all’eccesso di mortalità alimentato dall’attuale pandemia nei suoi primi tredici mesi, ci rendiamo conto che ciò è accaduto solo al 40° mese dall’inizio del conflitto (figura 1). In pratica, si è reso necessario un intervallo di tempo che è tre volte più esteso e che si spinge sino al termine delle operazioni militari (con l’armistizio
dell’8 settembre 1943). Va altresì rilevato che se anche, nel conteggio delle vittime prodotte dall’ultimo conflitto, andassimo ad aggiungere la componente dei dispersi, il costo in termini di vite umane dell’attuale (e mai dichiarata) guerra pandemica resterebbe comunque largamente più precoce e concentrato: all’equivalenza numerica con l’eccesso di mortalità registrato a tutt’oggi si arriverebbe unicamente col 31° mese dall’inizio del conflitto. Non a caso, in corrispondenza del picco generato dal drammatico tributo degli oltre 50 mila dispersi nella campagna di Russia, un dato, quest’ultimo, che appare con tutta evidenza nel resoconto statistico di dicembre 1942 e di gennaio 1943.
Stessi numeri, ma con profili differenti
La sostanziale parità numerica tra i decessi ufficialmente conteggiati nei primi tredici mesi della pandemia di COVID-19 e quelli attribuiti all’ultimo conflitto, dalla dichiarazione di inizio alla data dell’armistizio, non significa affatto che il profilo dei soggetti coinvolti sia altrettanto simile. Limitandoci alle caratteristiche più rilevanti (e comparabili) si rileva innanzitutto come mentre l’equilibrio digenere tra i deceduti per COVID-19 viene abbastanza rispettato, pur in presenza di una prevalenza maschile (56,4%), esso appare decisamente stravolto allorché si considerano i deceduti per cause belliche, dove i maschi accentrano il 91,3% dei casi. Ma differenze altrettanto marcate si colgono anche dal confronto tra la composizione per età dei due collettivi (figura 2). Come è noto, i decessi per COVID-19 hanno riguardato nella quasi totalità soggetti con almeno 60 anni (95,5%), con uno spiccato orientamento verso le fasce più anziane: circa un quarto dei morti sono 70-79enni, 4 su 10 sono 80-89enni e 2 su dieci ultra90enni. Viceversa, tra i caduti in guerra la quota della componente più anziana – i dati si hanno solo per gli ultra60enni nel loro complesso e ad essi si riferisce il confronto – si limita al 15,5% tra i civili e a un modesto 0,25% tra i militari. Nell’ambito di questi ultimi è la classe d’età 20-29anni quella che ha pagato, con il 73% dei caduti, il più alto tributo di vite umane nel corso dell’ultima guerra – essendo la distribuzione per età tra i civili piuttosto uniforme con quote del 10-15% – mentre le conseguenze fatali di COVID-19 per i giovani 20-29enni sono risultate decisamente modeste: coprono unicamente lo 0,05% del totale dei decessi.
Anche sul piano territoriale gli effetti dei due drammatici eventi non si mostrano con uguale intensità. Ad esempio, mentre il peso della Lombardia rispetto alla letalità di COVID-19, sul totale nazionale, è circa il doppio se confrontato con quello corrispondente alla drammatica esperienza bellica, in Sicilia la situazione si inverte e il rapporto, che segna la prevalenza dei caduti in guerra, è di circa 3 a 1.
In generale, si può affermare che nel panorama nazionale siano le regioni del Nord Italia ad aver pagato alla pandemia un prezzo in termini di vite umane relativamente superiore a quanto versato in tempo di guerra. Viceversa, nelle le regioni del Centro, e soprattutto in quelle del Mezzogiorno, risulta prevalere la quota di caduti nel corso dell’ultima guerra (tra la dichiarazione e l’armistizio).
Per concludere
Ancora una volta, il linguaggio dei numeri si rivela chiaro ed inequivocabile. Esso mostra, pur con le necessarie distinzioni sul piano strutturale e territoriale, come in questi mesi si sia pagato – in Italia così come in quasi ogni parte del Pianeta – un prezzo di vite umane tale da configurare qualcosa di assimilabile ad una “Terza Guerra Mondiale”. Quando tutto ciò finirà –sperando che accada ovunque e il più in fretta possibile – saremo in grado di tirare le somme, anche con l’aiuto dei dati e delle analisi statistiche, riguardo ad un’esperienza che mai ci saremmo aspettati di affrontare, ma che invece (realisticamente e saggiamente) dovremo saper mettere in conto e farne tesoro.
Solo così potremo sperare di dar vita, come già accadde nel secondo dopoguerra, ad un’operosa fase di intensa “ricostruzione” – anche se oggi si preferisce parlare di ri-generazione o, nel segno dell’Europa, di #nextgenerationEU – che possa consentirci di risollevare pienamente la testa e di ripartire.
L’auspicio è che questa rinascita sia anche capace di segnare l’inizio di una stagione virtuosa e in grado di regalarci – al pari di quanto è successo la volta scorsa – l’entusiasmante esperienza di un nuovo (perché no?) “miracolo economico”.
E poco importa se anche lo si vorrà chiamare, per essere moderni e internazionali, con un qualche diverso termine in lingua inglese!
Intervento di Gianfranco Blangiardo in versione pdf
Mercoledì, 16 giugno 2021