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Violazione delle “misure di contenimento”: perché la sanzione penale e non invece una più efficace sussidiarietà?

24 Marzo 2020 - Autore: Alleanza Cattolica

Riflessione dell’Avv. Domenico Menorello, Presidente Osservatorio parlamentare “Vera lex?”, dal Centro Studi “Rosario Livatino” del 24/03/2020

Assicurare efficacia ai provvedimenti assunti per l’emergenza sanitaria in corso è uno degli obiettivi irrinunciabili per sperare in un contenimento del contagio. Obiettivo, però, che sembra ancora troppo lontano, soprattutto a detta dei Governatori e dei Sindaci delle comunità civiche più colpite, che possono monitorare in concreto l’effettivo modificarsi o meno dei costumi della relativa popolazione.

A oggi la risposta per ottenere un più vasto rispetto delle prescrizioni viene quasi integralmente affidata al “soccorso penale”, sul cui esclusivo fronte si stanno concentrando gli sforzi del Governo, secondo una decisa e progressiva evidente dinamica centralistica.

Le cronache rappresentano una curva esponenziale dei controlli delle forze dell’ordine, per ben 70.973 denunciati dall’11 al 20 marzo ovvero per 11.086 segnalazioni penali il giorno successivo. Si tratta, come noto, per lo più di denunce all’Autorità inquirente per supposte violazione dell’art. 650 del codice penale, rubricato, appunto, come Inosservanza dei provvedimenti dell’autorità. Come se tale conseguenza non fosse già implicita nel vigente sistema ordinamentale, il legislatore dell’emergenza ha (freudianamente?) sentito il bisogno di rimarcarla, a ciò dedicando l’art. 3 co. 4 del decreto-legge 23 febbraio 2020 n. 6, convertito a tamburo battente nella legge 5 marzo 2020 n. 13, in cui si garantisce che “Salvo che il fatto non costituisca più grave reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto -ovvero delle misure dei DD.PP.CC.MM. ivi previsi al primo comma precedente – è punito ai sensi dell’articolo 650 del Codice penale”.

Siamo davvero sicuri che inviare alle Procure della Repubblica qualcosa – in proiezione al 3 aprile 2020 – come 150/200.000 denunce penali sia uno strumento adeguato a sanzionare comportamenti ritenuti elusivi della normativa d’emergenza, e dunque potenzialmente pregiudizievoli per la salute pubblica?

La risposta, negativa, è scontata. Una miriade di nuovi fascicoli sta inondando le scrivanie dei pubblici ministeri, che prima della prescrizione non ne potranno esaminare che una minuscola frazione, per emanare, alla fine, forse qualche centinaio di decreti penali di condanna, a loro volta forieri di una conclusione sostanzialmente innocua per i destinatari, che, infatti, per lo più ricorreranno a una facile e nemmeno troppa onerosa oblazione estintiva di ogni effetto giuridicamente pregiudizievole, ovvero proporranno opposizione, confidando a maggior ragione nell’inevitabile decorso del termine di prescrizione.

Se si abbandonasse, invece, tale posizione pregiudiziale, secondo cui un’azione repressiva deve prioritariamente essere concepita in una logica penalistica, si potrebbe esplorare una differente doppia opzione giuridica, che il principio di sussidiarietà di cui all’art. 118 Costituzione suggerisce sia circa il graduale utilizzo delle fonti del diritto, sia quanto alla complementarietà delle diverse competenze istituzionali. In altri termini, smarcandosi dal preconcetto penal-centralistico, potrebbero venire a supporto dell’essenziale obiettivo di efficacia le leve del diritto amministrativo e del coinvolgimento degli enti locali.

In primo luogo, al di là dell’astratta illiceità penalistica ex art. 650 cod.pen. di comportamenti incoerenti con le ordinanze sanitarie, tali fattispecie ben potrebbero essere considerate per dare luogo alla comminazione di sanzioni amministrative pecuniarie quantificabili in cifre adeguate alle circostanze, che – a differenza dell’imputazione penale – sarebbero certe, oltre che immediatamente contestabili ed escutibili nei confronti del trasgressore, quindi concretamente percepibili dal medesimo.

Ovviamente, il principio di legalità impone che per introdurre un livello di sanzionabilità amministrativa debba esserci una disposizione di legge che tipizzi tale ipotesi. In effetti, appena quattro giorni dopo l’approvazione della succitata legge n. 13/2020, il Governo – forse arresosi all’evidente rischio che l’approccio penalistico rischiasse di restare lettera morta almeno quanto al rispetto degli standard di distanza imposti nei pubblici esercizi – varava l’art. 15 del D.L. 9 marzo 2020 n. 14, nel quale è stata prevista una ipotesi di sanzione amministrativa, così formulata: «Salva l’applicazione delle sanzioni penali ove il fatto costituisca reato, la  violazione degli obblighi imposti dalle misure di cui al comma 1 a carico dei gestori di pubblici esercizi o di attività commerciali è sanzionata altresì con la chiusura dell’esercizio o dell’attività da 5 a 30 giorni. La violazione é accertata ai sensi della legge 24 novembre 1981, n. 689, e la sanzione è irrogata dal Prefetto».

Nient’altro, però. Per tutte le altre fattispecie vietate dai DD.PP.CC.MM. il diritto amministrativo e le sue possibili sanzioni, che avrebbero dovuto essere il primo strumento, sono stati illogicamente lasciati a riposo. Pur in questa situazione, vi sarebbe comunque una seconda possibilità di ottenere maggiori risultati in termini di efficacia dei decreti presidenziali emergenziali, confidando, cioè, nella collaborazione degli enti locali, all’uopo semplicemente applicando quanto già previsto dal Testo Unico degli Enti Locali (D. Lgs 18.8.2000, n. 267): collaborazione che, al contrario, risulta irragionevolmente mortificata dall’assetto della legislazione urgente sin qui emanata.

L’art. 54 TUEL prevede, come noto, che il Sindaco, quale ufficiale del Governo, possa adottare “provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica” (comma 4) ovvero possa, “a causa di circostanze straordinarie … modificare gli orari degli esercizi commerciali, dei pubblici esercizi e dei servizi pubblici” (comma 6). Altresì, l’ultimo comma della norma in commento assegna al Ministero dell’Interno “atti di indirizzo per l’esercizio delle funzioni” sindacali menzionate.

La violazione di tali ordinanze comunali comporta la sanzione pecuniaria fino a € 500,00, giusti l’art. 7 bis TUEL e l’art. 16 della legge 14.11.1981, n. 689. Dunque, il Ministro dell’Interno potrebbe immediatamente produrre atti di indirizzo per chiedere ai Sindaci di prevedere un sistema di sanzioni pecuniarie nel caso di comportamenti incoerenti con quanto disposto per l’emergenza in corso dal Presidente del Consiglio ai sensi dell’art. 3 co. 1 della legge n. 13/2020, declinando e graduando un simile inasprimento sanzionatorio sulla base delle caratteristiche del proprio territorio e dei criteri omogeni che dovrebbero essere preventivamente individuati dal Viminale.

Invece, una simile sensibilità istituzionale non trova, allo stato, esplicazione nella normativa d’urgenza del Governo, che, al contrario, sembra piuttosto esprimere una non velata diffidenza nei confronti degli enti locali. Si sarà notato, per esempio, che il già citato art. 15 del D.L. 14/20 assegna la competenza a disporre la sospensione dell’attività dei pubblici esercizi al solo Prefetto, quando ben più efficacemente potrebbero provvedere in tal senso l’Amministrazione e la polizia comunali. Altresì, nell’individuare la competenza all’assunzione di provvedimenti d’urgenza previsti dalla legge n. 13/20 si citano solo il Presidente del Consiglio e, per un perimetro assai circoscritto, i Presidenti delle Regioni. La omessa menzione dei Sindaci va, poi, necessariamente letta assieme all’art. 35 del D.L. 2 marzo 2020, n. 9, ove si prescrive che “A seguito dell’adozione delle misure statali di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 non possono essere adottate e, ove adottate sono inefficaci,  le  ordinanze  sindacali contingibili e urgenti dirette a fronteggiare l’emergenza predetta in contrasto con le misure statali”.

Si tratta di una disposizione che appare pleonastica alla luce della necessaria coerenza con i principi, anche emergenziali, dell’ordinamento che, in ragione del citato art. 54, co. 4 TUEL, le ordinanze sindacali devono sempre assicurare, nonché considerando il generale potere di annullamento degli atti comunali sempre consentito al Governo ex art. 138 dello stesso Testo Unico. Invece, soggettivo e incerto si presenta il criterio relativo al “contrasto con le misure statali”, che potrebbe essere certamente escluso se venisse esercitato il potere di indirizzo ai Sindaci che il Ministro dell’interno ha in ragione del sopra commentato ultimo comma dell’art. 54 TUEL.

Perciò, il quadro normativo derivante soprattutto dal riportato tenore degli art. 3 della legge 13/20 e 35 del D.L. 9/20 introducono un disfavore rispetto ad un ruolo di partecipazione istituzionale, seppur complementare, dei Comuni. Tale effetto risulta penalizzante per il Paese in questo drammatico momento, in quanto, come si è visto, così si rinuncia a uno strumento contro comportamenti impropri, quale sarebbe rappresentato dalle sanzioni amministrative comunali, che avrebbero una efficacia sensibilmente superiore rispetto a ipotetici e comunque futuri decreti penali di condanna ex art. 650 cod.pen.

Non solo. Demotivare i Comuni e i Sindaci appare un grave errore, anche perché si tratta, sotto il profilo istituzionale, del miglior avamposto territoriale, che proprio in altre situazioni di emergenza, quali – e solo per richiamare la memoria agli esempi più recenti – le alluvioni, hanno saputo spesso dare prova di eccezionali capacità di conoscenza capillare del territorio e dei suoi abitanti, nonché di tempestive azioni e iniziative verso le popolazioni.

È una rinuncia, questa, che in momenti quale il presente non si può davvero accettare.

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