di Ignazio Cantoni
1. I presupposti storici
Il conte savoiardo Joseph de Maistre (1753-1821) parla degl’inizi dell’Illuminismo in questi termini: «Al principio del secolo [XVIII] […], coloro che il protestantesimo aveva abbastanza dirozzato, erano tutti apparecchiati all’empietà. Bayle [Pierre, 1647-1706] aveva alzato la bandiera, e da ogni parte si avvertiva un sordo fermento, una rivolta dell’orgoglio contro tutte le verità tradizionali, e una generale inclinazione a distinguersi per indipendenza e novità di opinioni». Tale processo è il frutto dell’opera preparata da certa parte dell’Umanesimo, dal Rinascimento e dalla Riforma protestante nei secoli XV e XVI, e svolta dal libertinismo e dalla letteratura clandestina sulle élite culturali e politiche dell’Europa nel secolo XVII. Molti temi che caratterizzano l’Illuminismo — ateismo teorico e pratico, anticattolicesimo, autonomia etica — sono già materia diffusa e condivisa: l’Illuminismo è in gran parte solo la socializzazione di tale cultura. Lo storico della filosofia e filosofo Nicola Abbagnano (1901-1990) completa idealmente i pensieri dello scrittore savoiardo: «Attraverso l’opera di Fontenelle [Bernard Le Bovier de (1657-1757)] e di Bayle, il libertinismo si continuerà nell’illuminismo […]. Ma affinché l’illuminismo raggiungesse […] il possesso di mezzi concettuali adeguati, esso doveva […] far sua l’opera di Locke [John (1632-1704)], nella quale molti temi rinascimentali e libertini trovarono la loro chiarezza razionale».
Il filosofo inglese è il sistematore di tale cultura e il punto di partenza per l’Illuminismo, così come il filosofo prussiano Immanuel Kant (1724-1804) ne è il culmine e al contempo la crisi. La ragione è uno strumento limitato, ma è l’unico che l’uomo ha a disposizione; per quanto riguarda la conoscenza, Locke è sensista e conseguentemente nega qualsiasi principio del senso comune, la nozione di sostanza è puro flatus vocis e il mondo è in definitiva inconoscibile; in merito all’uomo, nulla toglie che egli sia materia pensante, dal momento che Dio può tutto, e il linguaggio è puro artefatto umano. Dio non è negato, anzi, ma è privo di effettiva importanza. Per quanto riguarda la religione, la sua unica cifra è il culto interiore, e Gesù Cristo è svestito di ogni attributo divino. Politicamente propugna l’indifferentismo religioso e nega — nel pensiero maturo — la divinità dell’autorità.
2. La ragione e la conoscenza
L’Illuminismo ha una visione ottimistica della ragione: a essa è certamente preclusa ogni possibilità metafisica, ma le sue capacità nei campi delle scienze naturali e umane sono enormi: essa è l’unico giudice di ogni conoscenza, principio e azione. Come scriverà Kant, «L’illuminismo è l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità […]. Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro». Niente più autorità: il protestante sola fide è rovesciato nel suo opposto, sola ratione. Addirittura sempre Kant arriverà, in uno scritto del 1786 intitolato Inizio congetturale della storia degli uomini, a interpretare la caduta dei progenitori narrata nel Genesi come una liberazione, grazie al «peccato» costituito dell’uso della propria ragione, dall’istinto, che sarebbe la «voce di Dio». In tale interpretazione egli si pone sulle orme del pensatore svizzero Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), che nel suo Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini, pubblicato nel 1755, aveva dato una valutazione simile, seppure di segno opposto, della nascita della ragione e della società come fonte di tutti i mali dell’umanità.
Per l’impostazione sensista, che troverà nel filosofo e storico scozzese David Hume (1711-1776) la sua espressione massima, l’idea è frutto, più o meno rielaborato, delle sensazioni. In esso non vi è nulla che evada dalla pura materialità del conoscente e dell’oggetto conosciuto. Anche per Kant, che si troverà a dover fare i conti con le inevitabili derive scettiche di Hume, tale lezione non passerà invano: pur non essendo il suo pensiero qualificabile propriamente come scettico, in esso rimane tuttavia un «possesso per sempre» il fatto che non si dà alcuna conoscenza al di fuori delle sensazioni. Proprio per questo tutte le idee come Dio, anima e mondo avranno per esso una funzione «regolatrice», morale, ma non conoscitiva.
È evidente, a questo punto, che concetti come sostanza, causa, effetto, principio non abbiano più legittimità: infatti, se si possono avere solo conoscenze particolari, le cosiddette verità universali saranno solo verità generali, e quindi non si potranno studiare le cause, se non empiricamente questa causa per questo effetto.
Non è pertanto possibile parlare di unità delle scienze, dotate di una gerarchia ad intra e ad extra, e di una loro intrinseca correlazione, cioè basata sul contenuto: l’esito inevitabile è il semplice accostamento alfabetico delle varie nozioni. Realizzazione di questa prospettiva è l’Enciclopedia o Dizionario ragionato di scienze, arti e mestieri, apparsa tra il 1751 e il 1772, opera promossa dallo scrittore francese Denis Diderot (1713-1784) e dallo scienziato pure francese Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert (1717-1783).
3. Il mondo
Il mondo rimane per i più una realtà priva di valore epistemico forte, ma campo destinato all’indagine scientifica intesa cartesianamente e galileianamente come conoscenza tramite modelli matematici. Proprio la rivoluzione scientifica aveva —inconsapevolmente e in modo per nulla necessario — sortito l’effetto di «disincantare» il creato, togliendogli la proprietà, così importante nella speculazione classico-cristiana, di rimando a una realtà metafisica. Essendo pura res extensa, esso è solo un meccanismo che, come un orologio, rimanda sì all’orologiaio, ma che, una volta caricato, ha una sua esistenza autonoma. Tale passo era stato compiuto anche grazie all’enorme entusiasmo suscitato dalle vastissime indagini dello scienziato, filosofo e teologo inglese Isaac Newton (1642-1727).
4. La politica
Antropologicamente, il concetto di persona — che ha in sé il riferimento non solo al singolo, ma anche al suo rapporto con Dio, con il mondo e con gli altri, in primis la famiglia — difeso dalla cultura cristiana viene soppiantato da quello d’«individuo»: si ha così la trasposizione del principio protestante in ambito politico, radice dell’esternazione dell’abbé francese Emmanuel-Joseph Sieyès (1748-1836), contenuto nello scritto Che cos’è il Terzo Stato? pubblicato nel 1789, secondo cui la società è l’«insieme degli individui».
La disomogeneità culturale messa in moto sempre dal protestantesimo aveva sollecitato vari tentativi di risposta: la Riforma cattolica, tesa a riconquistare in interiore homine tale omogeneità; la confessionalizzazione dello Stato, di origine protestante, espressa dalla formula cuius regio eius religio; e la risposta massonica, tesa a cercare un accordo fra tanti microcosmi, evitando di porre problemi di principio e favorendo in tal modo la privatizzazione del fatto religioso. Quest’ultima prospettiva è quella storicamente vincente dall’Illuminismo in avanti. Corollario di essa è che, quando proprio non ci si può esimere dal trattare di principi, essi siano validi solo in base alla ratifica della «volontà generale».
Quest’ultima viene teorizzata da Rousseau nel suo Il contratto sociale, pubblicato nel 1762. È molto importante sottolineare come essa non coincida per nulla con la maggioranza. Egli scrive infatti: «Da sé il popolo vuole sempre il bene, ma non sempre lo vede da sé. La volontà generale è sempre retta, ma il giudizio che la guida non sempre è illuminato. Bisogna farle vedere gli oggetti come sono, e talvolta come le debbono apparire […]. I singoli privati veggono il bene che respingono; il pubblico vuole il bene che non vede. Tutti ugualmente han bisogno di guida. Bisogna obbligare gli uni a conformare le loro volontà alla loro ragione; bisogna insegnare all’altro a conoscere ciò che vuole. Allora dall’illuminata coscienza pubblica risulta l’unione dell’intelletto e della volontà nel corpo sociale; da ciò l’esatto concorso delle parti, e infine la maggior forza del tutto».
5. La storia
La prospettiva della filosofia illuministica sulla storia è ambigua. Da un lato, data la fiducia nella ragione e nelle sue capacità, la storia diviene oggetto di considerazioni ottimistiche: essa è lo sviluppo, il campo di manifestazione del «progresso» delle facoltà umane. D’altra parte, però, l’uomo è solo in questa marcia: non ha più senso infatti parlare di provvidenza e di pedagogia divina ma solo di caso, contro il quale in definitiva le forze umane possono ben poco. Lo scoglio maggiore e non aggirabile è costituito come sempre dal male. Lo scrittore francese François-Marie Arouet detto «Voltaire» (1694-1778) espresse in modo emblematico tale disagio esistenziale in occasione del terremoto di Lisbona nel 1755, e poi in Candido o dell’Ottimismo, del 1759. La sua conclusione, non sempre coerente nella lettera, invita in definitiva il lettore all’ateismo pratico. A sua volta Kant ridimensionerà molto l’ottimismo settecentesco — date le sue premesse antropologiche contenute nel saggio La religione nei limiti della sola ragione, del 1793 — nello scritto, del 1795, Per la pace perpetua, ove si dice ultimamente scettico sulle capacità umane non solo di sconfiggere il male, ma semplicemente di arginarlo.
6. La religione: la «teofobia» come cifra dell’Illuminismo
Dio — se c’è — perde qualsiasi tratto di confessionalità: ebraismo, islam, cattolicesimo, protestantesimo non hanno più alcun valore in quanto tali, ma esclusivamente come mezzi, tutti sostanzialmente validi, di elevazione. A una sola condizione: che badino all’universalità che è in loro, e non agli elementi teologici, fantastici, superstiziosi in definitiva, che li corredano. Tale universalità è costituita dalle leggi morali. Il grande propugnatore di tali tesi è il filosofo e scrittore sassone, nonché massone, Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781).
De Maistre ha scritto, parlando della preghiera, un’efficace sintesi dell’essenza illuministica: «La filosofia dell’ultimo secolo […] non ha tralasciato nulla per distoglierci dalla preghiera in considerazione di leggi eterne e immutabili. Essa aveva come scopo preferito, direi quasi unico, di distaccare l’uomo da Dio […] Tutta questa filosofia altro non fu di fatto che un vero sistema di ateismo pratico: ho dato un nome a questa strana malattia, la chiamo teofobia; guardate bene, voi la vedrete in tutti i libri filosofici del XVIII secolo. Non si diceva con franchezza: Non c’è Dio, asserzione che avrebbe potuto comportare qualche inconveniente fisico; ma si diceva: Dio non è qui. Non è nelle vostre idee, che vengono dai sensi; non è nei vostri pensieri, che sono solo sensazioni trasformate; non è nei flagelli che vi affliggono, questi sono fenomeni fisici, come altri che si spiegano con le leggi conosciute. Egli non pensa a voi; non ha fatto nulla per voi di particolare; il mondo è fatto per l’insetto come per voi; non si vendica di voi, perché siete troppo piccoli, ecc… Infine, non si poteva nominare Dio a questa filosofia senza farla prendere dalle convulsioni. Scrittori anch’essi di quell’epoca, infinitamente al di sopra della massa, e considerevoli per eccellenti punti di vista parziali, hanno decisamente negato la creazione. In che modo parlare a queste persone di castighi celesti senza farle infuriare? Nessun avvenimento fisico può avere causa superiore relativa all’uomo: ecco il suo dogma. A volte forse essa non oserà articolarlo in generale; ma nella pratica, negherà costantemente il particolare, il che è lo stesso».
Ignazio Cantoni
Per approfondire: cfr. Ernst Cassirer (1874-1945), La filosofia dell’illuminismo, trad. it., La Nuova Italia, Scandicci (Firenze) 1964; e una raccolta di testi dell’epoca sull’Illuminismo, in Immanuel Kant, Che cos’è l’illuminismo?, trad. it., a cura di Nicolao Merker (1931-2016), Editori Riuniti, Roma 1997.