La politica terroristica è una caratteristica strutturale del regime comunista. Fin dalla sua conquista del potere (in alcune circostanze anche durante la conquista del potere) prima in Russia e poi in tutti i Paesi comunistizzati del mondo il partito comunista ha adottato il terrorismo come metodo per forgiare, volente o nolente, la società secondo il credo marxista. Non si tratta né di un espediente congiunturale, né di una reazione a qualche minaccia, né di qualcosa legato a una persona: il terrore “rosso” — come peraltro quello “giacobino” per la Rivoluzione Francese (1789-1799) — è intrinseco alla Rivoluzione apertasi nell’Ottobre del 1917. Più o meno intensamente, la “pulizia di classe” e l’annientamento dei nemici della dittatura del proletariato sono costantemente demandati ad appositi organi dello Stato; il terrore viene scatenato tanto nei momenti di pace, quanto in quelli di guerra; non esiste, infine, come si tenta comunemente di far credere, un terrore “staliniano”: il terrore comincia con Vladimir Il’ič Ul’janov detto Lenin (1870-1924) — e dura sette anni —, prosegue con Iosif Vissarionovič Džugašvili detto Stalin (1878-1953) — per quasi trent’anni — e si protrae — anche se in maniera attenuata e meno indiscriminata — con i successivi governanti sovietici. In Cina arriva a estremi altamente omicidi con Mao Zedong (1873-1976), ma la repressione continua anche dopo di lui e anche oggi i Laogai ne sono espressione.
Per esempio, Lenin ha scritto che «è poco probabile che un governo rivoluzionario, quale che sia, possa fare a meno della pena di morte contro gli sfruttatori (cioè contro i grandi proprietari fondiari e i capitalisti)». E quando, nel giugno del 1918, la sezione di Pietrogrado del partito comunista voleva porre argine al terrore di massa, Lenin risponde: «I terroristi [comunisti estremisti] ci considereranno degli stracci. Il momento è più che di guerra. Bisogna stimolare le forme energiche del terrore contro i contro-rivoluzionari, e specialmente a Pietrogrado, il cui esempio decide».