di Domenico Airoma
Prima è stato scritto dai maestri del “diritto mite”, versione giuridica del “pensiero debole”: «la coscienza è solo un’opinione». Non si può accordare la vittoria a tutti: nel gioco democratico c’è chi vince e c’è chi perde. E c’è chi è destinato a rimanere fuori dal gioco, perché non ne condivide le regole, perché obietta invocando una norma superiore, scritta nel cuore degli uomini e come tale insopprimibile.
Poi è stato scritto nelle leggi. E non in leggi qualsiasi, ma in quelle che pretendono di stabilire se e fino a quando un uomo ha diritto a vivere o se ha diritto a una mamma e a un papà.
E poi lo hanno scritto sui giornali, invocando il carcere per chi ancora si ostina a opporre che non ogni desiderio può essere trasformato in diritto, pretendendo di rimanere nelle istituzioni e nei servizi pubblici.
Infine, lo hanno scritto sui muri: «fuori gli obiettori dagli ospedali!»
E poi ‒ chissà ‒ dai consultori, dai municipi, dai tribunali, dalla piazza pubblica: insomma, vanno neutralizzati relegandoli in spazi controllati; anzi, meglio se decidessero spontaneamente di rinchiudersi in una riserva.
Ma perché tanta paura degli obiettori?
La realtà è che fa paura che si risveglino le coscienze; che alcuni scoprano che questo non è “il migliore dei mondi possibili” e che quest’epoca dei cosiddetti “nuovi diritti”, fondati sull’“uomo nuovo”, altro non è che una gilded age, come avrebbe detto lo scrittore Mark Twain (1835-1910). Un’età “indorata”, cioè, dove l’unico divieto è quello di grattare l’ingannevole patina d’oro che copre il vile metallo della contraffazione degli autentici valori che rimandano al fine ultimo dell’uomo. «Fuori gli obiettori!»: più che una minaccia lasciata vilmente su un muro, è il triste epitaffio sul sepolcro di un mondo che muore. Fuori gli obiettori? Forse. Ma la verità sull’uomo prevarrà. Contro il relativismo e i suoi scherani che gli hanno oramai apertamente dichiarato guerra.