di Chiara Mantovani
«Serve una discussione laica», si legge su la Repubblica. Io non so che cosa voglia dire «discussione laica». Oggi, più di ogni altro giorno, devo tenermi stretta alla mia fede per non dar di matto. Ma se, come credo, le parole della presidente del dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma, Mariella Enoc, vogliono invitare a una riflessione seria e non ideologica su ciò che sta accadendo ad Alfie Evans e alla sua famiglia, sono d’accordo. Molto d’accordo. Il tempo delle criticità non è adatto alla riflessione. Certe sentenze, come certe persuasioni, non nascono improvvisamente, si costruiscono con il terreno di riporto di un lento fluire, come la mia pianura padana: ma sono detriti, frutto di erosione, di distruzione, di disfacimento. Approntare un terreno solido su cui poggiare le fondamenta di una civiltà richiede fatica, sforzo, impegno. Attendere, bonificare, consolidare. Nulla da spartire con questa frenesia di far morire.
Vorrei guardare negli occhi i giudici della Suprema Corte, della CEDU, i direttori e i sanitari dell’Alder Hey’s Hospital, capire che cosa credono sia la morte procurata di un innocente. In tutto il mondo vogliamo fermare le esecuzioni dei colpevoli, perché l’uomo è più grande della propria colpa. E l’innocente non è più grande della propria malattia?
Vorrei capire che significato ha, per loro, la libertà di cura, il diritto di libera circolazione in Europa per turismo e per curarsi, la responsabilità genitoriale. Non m’interessa sapere che cosa farebbero se Alfie, Charlie e Isaiah fossero loro figli o loro nipoti: se non sanno giudicare al di là del sentimento e dell’interesse personale, non m’interessa. Se non sanno discernere ciò che è giusto e – quando è difficile e dubbio – fermarsi per prudenza, hanno un pensiero così fumoso e presuntuoso e irresponsabile che non merita considerazione.
Poi vorrei sapere se a Londra si è concentrata una volontà di morte senza pari o se là sono solo più attenti a evidenziarla coloro che non la condividono; oppure se, in tutto il mondo, e lo temo, succede altrettanto, moltiplicato e silenziato.
Mentre è appena nato l’ultimo royal baby, si sta uccidendo un people baby. Due mamme, due papà, due bambini. No, non è una questione di classe sociale, mi colpisce il contrasto tra le due camere dei due ospedali, la diversa attenzione dei media, la gente fuori dalle due cliniche, gioiosa e pittoresca l’una, commossa e prostrata l’altra. È che Alfie rappresenta proprio colui che non ha nulla se non la preziosità della sua vita. «Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima». Mi si perdonerà se cito un sacro testo del profeta Isaia (Is 53, 2-3): è talmente aderente alla contemporaneità che mi sembra scritto in queste settimane. Qualcuno ha sentenziato che la vita di Alfie è “futile”. Sta soffrendo e come risposta si è capaci solo di sopprimerlo. È uno da scartare e lo si rinchiude per non farlo vedere, ci si copre la faccia.
Questo è forse il passaggio più insopportabile: perché non consentire che vada via da quell’ospedale? Che cosa si può fare in altri ospedali? A farlo morire son capaci tutti, quindi la differenza non può essere lì. E se potessero farlo vivere? Se altrove fossero più bravi? Se facessero diagnosi diverse? Se lo amassero in un altro modo e addirittura meglio? Oh no, semplicemente c’è una legge, c’è un “Piano per la sospensione del trattamento”, così è stato deciso e così deve succedere.
Come Ponzio Pilato: così ho scritto. È un paragone che disturba qualcuno? Sorry.