La santa non protesse Catania solo dalle eruzioni dell’Etna, ma venne invocata dallo storico della liturgia dom Prosper Gueranger contro la corruzione dei costumi, come dovrebbero fare oggi tutti i cattolici
di Diego Torre
Il 5 febbraio del 251 moriva a Catania sant’Agata, troppo bella e troppo libera per vivere in un mondo in cui si dovevano adorare gli idoli per fedeltà ad uno Stato che non ammetteva disobbedienze. Non sarà ovviamente la sola: nelle persecuzioni contro i cristiani scatenate durante l’impero romano furono decine, forse centinaia di migliaia coloro che morirono per non rinnegare Nostro Signore Gesù Cristo.
Il proconsole Quinziano giunse a Catania determinato a far rispettare l’editto imperiale di Decio, che chiedeva a tutti i cristiani di abiurare pubblicamente la loro fede. Agata, catechista della locale comunità, e la sua famiglia furono costretti a fuggire a Palermo, ma vennero rintracciati e, nell’atto di riportarla a Catania, Quinziano la vide… e perdette la testa. Gli sembrava facile avere l’abiura della sua fede e il godimento del suo corpo, pertanto ci provò, ma non ci riuscì.
Il proconsole provò ancora con le “buone”, affidandola ai “saggi” insegnamenti della tenutaria di un bordello e alle sue corrotte figlie, affinché le minacce e le promesse, i festini, i divertimenti osceni e i banchetti più “allegri” la inducessero a cessare dai suoi atteggiamenti “integralisti”, adeguandosi, in anima e corpo, al “politicamente corretto” dell’epoca. Ovviamente anche questi tentativi fallirono e Quinziano passò alle maniere forti, sottoponendo la fanciulla a processo, ma la risposta di Agata, che leggiamo nel Martirologio romano, non lasciò speranze al suo persecutore. Ella ribadì la sua condizione nobiliare e confermò: «Io sono serva di Cristo […] la nobiltà suprema consiste nell’essere schiavi di Cristo», umiliando il magistrato. Fedeltà a Cristo e alla sua dignità di giovane vergine sono un tutt’uno, e non lasciano spazio né alle lusinghe del mondo, né alla paura della morte, che si avvicina inesorabile.
Si passò allora alle frustate, alla slogatura di caviglie e polsi, fino allo strappo delle mammelle. Pare che, di notte nel carcere, san Pietro in persona l’abbia risanata e consolata, ma ciò non le evitò il supplizio finale dei carboni ardenti, dalle cui fiamme rimase però integro il flammeum, il velo rosso portato allora dalle spose e, come metafora nuziale, dalle vergini consacrate, una delle sue reliquie più preziose.
Queste cose i catanesi (e quanti nel mondo sono devoti alla santa) le sanno (o dovrebbero saperle) abbastanza bene, e ogni anno danno vita ad una delle feste più affollate della cristianità, memori quantomeno delle tante volte che la loro santa patrona è intervenuta a difenderli da terremoti, eruzioni dell’Etna e pericoli bellici. Ma accanto a questo tipo di interventi, come non invocarla per quanto indica dom Prosper Gueranger (1805-1875) nella sua opera L’Anno Liturgico? «Ripetute volte il tuo velo verginale, presentato ai torrenti incandescenti della lava che scorrevano lungo i fianchi dell’Etna, ne arrestò il corso sotto gli occhi di tutto il popolo: opponi […] la potenza della tue innocenti preghiere allamarea della corruzione, che dilaga sempre più in mezzo a noi, minacciando di abbassare i nostri costumi al livello di quelli del paganesimo».
Lo chiedeva nell’Ottocento; cosa chiederebbe oggi? Quanti cristiani sono consapevoli che la salvezza dell’anima è grandemente superiore alla salute del corpo? Quanti orientano di conseguenza la propria preghiera e la propria vita e si ritengono, come san Paolo, «lieto delle sofferenze che sopporto, e completo nella carne quello che manca ai patimenti di Cristo a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col. 1,24)?
Mercoledì, 10 febbraio 2021