Da fedele che partecipa quotidianamente alla Messa promulgata da san Paolo VI e ha una particolare venerazione per la liturgia cosiddetta “di san Pio V”, esprimo al Santo Padre l’obbedienza piena alla Lettera Apostolica in forma di Motu “Proprio” del Sommo Pontefice Francesco “Traditionis Custodes” sull’uso della Liturgia Romana anteriore alla Riforma del 1970.
Come responsabile di Alleanza Cattolica – un’associazione che avendo come scopo l’animazione cristiana dell’ordine temporale, non si occupa direttamente di liturgia, ma prevede nel suo Direttorio un ringraziamento esplicito a Benedetto XVI per avere offerto ai sacerdoti di celebrare liberamente nel Rito romano antico e ai fedeli laici di parteciparvi –, assicuro che chiederemo ai vescovi diocesani il permesso per la celebrazione della Messa antica quando se ne presenterà l’occasione.
Non si tratta di un’obbedienza soltanto formale, ma della convinzione maturata in tanti anni che il Magistero del Concilio Ecumenico Vaticano II rappresenta una tappa fondamentale di quella “nuova evangelizzazione” resasi necessaria dopo la fine della Cristianità e l’ingresso nella piena modernità.
Quindi, nessuna contrapposizione da parte nostra tra la fedeltà al Concilio Vaticano II e l’apprezzamento per la liturgia espressa dal Messale Romano promulgato da san Pio V e nuovamente edito da san Giovanni XXIII.
Semmai una domanda. Ogni cattolico ha a cuore l’unità fra le diverse realtà che animano la vita della Chiesa. Fra le realtà che hanno gioito per il Motu Proprio Summorum Pontificum, del 2007, vi sono stati alcuni (secondo quanto riportato nel Motu proprio) che hanno “usato” l’occasione offerta dal Papa emerito per attaccare il Concilio Vaticano II, ma certamente altri– secondo varie e attendibili inchieste, maggioritari – che si sono sentiti e continuano a sentirsi in piena comunione con Roma. Dunque, perché non riconoscere questa comunione e operare per fortificarla?
Marco Invernizzi
23 luglio 2021, Festa di s. Brigida di Svezia
Con l’intento di dare luce e profondità a queste considerazioni, offriamo di seguito una sintesi curata da Stefano Nitoglia di un autorevole intervento sul Motu Proprio Traditionis Custodes del cardinale Gerhard Ludwig Müller, arcivescovo e teologo tedesco, prefetto emerito della Congregazione per la Dottrina della Fede, pubblicato il 19 luglio sulla testata online The CatholicThing.
Con lettera apostolica intitolata Traditionis custodes, pubblicata sotto forma di Motu proprio il 16 luglio 2021, papa Francesco ha dettato alcune indicazioni giuridiche e liturgiche per la celebrazione della SS. Messa secondo il rito del Messale Romano di papa san Giovanni XXIII del 1962, comunemente detto “rito tridentino” o “rito romano antico”, dando, nel contempo, indicazione ai Vescovi riguardo la cura pastorale dei gruppi che celebrano secondo questo messale.
In sintesi, le nuove disposizioni, che hanno espressamente abrogato le precedenti, tra le quali quelle dettate dai papi san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, sono che: l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano sono i libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II;
le celebrazioni liturgiche secondo il Messale del 1962 sono regolate dai rispettivi vescovi diocesani, i quali si devono accertare che i gruppi che usano questo Messale non escludano la validità e la legittimità della riforma liturgica, dei dettati del Concilio Vaticano II e del Magistero dei Sommi Pontefici e indichino uno o più luoghi dove i fedeli aderenti a questi gruppi possano radunarsi per la celebrazione eucaristica (non però nelle chiese parrocchiali e senza erigere nuove parrocchie personali), stabilendo i giorni in cui sono consentite tali celebrazioni eucaristiche,nelle quali le letture devono essere proclamate in lingua vernacola; i vescovi, inoltre, avranno cura di non autorizzare la costituzione di nuovi gruppi;
i sacerdoti ordinati dopo la pubblicazione del Motu proprio del 16 luglio, che intendono celebrare con il messale del 1962, devono inoltrare formale richiesta al Vescovo diocesano il quale prima di concedere l’autorizzazione consulterà la Sede Apostolica, mentre quelli che già celebrano secondo il messale del 1962, dovranno richiedere al Vescovo diocesano l’autorizzazione per continuare ad avvalersi della facoltà;
gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, a suo tempo eretti dalla Pontificia Commissione Ecclesia Dei passano sotto la competenza della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica;
la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti e la Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, per le materie di loro competenza, eserciteranno l’autorità della Santa Sede, vigilando sull’osservanza di queste disposizioni.
Si tratta, in pratica, di una rivoluzione rispetto alle precedenti norme dettate in materia da san Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI per andare pastoralmente incontro alle esigenze dei fedeli amanti della liturgia tradizionale onde «facilitare la comunione ecclesiale a quei cattolici che si sentono vincolati ad alcune precedenti forme liturgiche».
Il Motu proprio ha suscitato numerose reazioni, alcune delle quali anche esagerate e scomposte. Gli atti di governo dei papi vanno accettati con devoto ossequio; nondimeno essi possono essere esaminati, con il dovuto rispetto, alla luce della retta ragione.
È quanto ha fatto il cardinale Gerhard Ludwig Müller, noto teologo e prefetto emerito della Congregazione per la Dottrina della Fede, in un articolo in tedesco, tradotto in inglese e pubblicato in questa lingua sul sito The catholic thing con il titolo Cardinal Mueller on the new TLM restictions (consultabile su https://www.thecatholicthing.org/2021/07/19/cardinal-mueller-on-the-new-tlm-restrictions/ ), del quale riportiamo alcuni brani in una nostra traduzione dall’inglese.
Il cardinale Müller premette che «l’intenzione del Papa, con il suo Motu proprio Traditionis Custodes, è quella di assicurare o restaurare l’unità della Chiesa» attraverso «l’unificazione totale del Rito Romano nella forma del Messale di Paolo VI (comprese le sue successive variazioni)», limitando «drasticamente la celebrazione della Messa nella Forma Straordinaria del Rito Romano», con la conseguenza «di condannare la Forma Straordinaria all’estinzione nel lungo periodo».
Secondo il prefetto emerito della Congregazione per la Dottrina della Fede «l’unità nella confessione della fede rivelata e la celebrazione dei misteri della grazia nei sette sacramenti non richiedono affatto una sterile uniformità in una forma liturgica esterna, ma «è radicata nell’unità in Dio attraverso la fede, la speranza e l’amore». Ad esempio, «anche dopo il Concilio di Trento, c’è sempre stata una certa diversità (musicale, celebrativa, regionale) nell’organizzazione liturgica delle messe. L’intenzione di Papa Pio V non era quella di sopprimere la varietà dei riti, ma piuttosto di frenare gli abusi che avevano portato a una devastante mancanza di comprensione tra i riformatori protestanti riguardo alla sostanza del sacrificio della Messa (il suo carattere sacrificale e la Presenza Reale). Nel Messale di Paolo VI, l’omogeneizzazione ritualistica (rubricista) viene spezzata, proprio per superare un’esecuzione meccanica a favore di una partecipazione attiva interiore ed esteriore di tutti i fedeli nelle loro rispettive lingue e culture. L’unità del rito latino, tuttavia, deve essere conservata attraverso la stessa struttura liturgica di base e il preciso orientamento delle traduzioni all’originale latino».
La Chiesa romana, prosegue il cardinale, «non deve scaricare la sua responsabilità per l’unità del culto sulle Conferenze episcopali», ma «deve vigilare sulla traduzione dei testi normativi del Messale di Paolo VI, come anche dei testi biblici, che potrebbero oscurare i contenuti della fede. La presunzione di poter “migliorare” i verba Domini (per esempio il pro multis – “per molti” – alla Consacrazione e l’et ne nos inducas in tentationem – “e non ci indurre in tentazione” – nel Padre Nostro) contraddice la verità della fede e l’unità della Chiesa molto più che celebrare la Messa secondo il Messale di Giovanni XXIII. La chiave per una comprensione cattolica della liturgia sta nell’intuizione che la sostanza dei sacramenti è data alla Chiesa come segno visibile e mezzo della grazia invisibile in virtù della legge divina, ma che spetta alla Sede Apostolica e, in conformità alla legge, ai vescovi, ordinare la forma esterna della liturgia (nella misura in cui non esiste già dai tempi apostolici) (Sacrosanctum Concilium, n. 22.1)».
Quanto alle disposizioni della Traditionis Custodes esse, secondo l’autorevole teologo, «sono di natura disciplinare, non dogmatica e possono essere nuovamente modificate da qualsiasi papa futuro», anche se, «naturalmente, il Papa, nella sua preoccupazione per l’unità della Chiesa nella fede rivelata, è da sostenere pienamente quando la celebrazione della Santa Messa secondo il Messale del 1962 è espressione di resistenza all’autorità del Vaticano II, cioè quando la dottrina della fede e l’etica della Chiesa sono relativizzate o addirittura negate nell’ordine liturgico e pastorale».
Però non si può tacere che «gli insegnamenti del Vaticano II su: l’unicità della redenzione in Cristo, la piena realizzazione della Chiesa di Cristo nella Chiesa cattolica, l’essenza interna della liturgia cattolica come adorazione di Dio e mediazione della grazia, la Rivelazione e la sua presenza nella Scrittura e nella Tradizione Apostolica, l’infallibilità del magistero, il primato del Papa, la sacramentalità della Chiesa, la dignità del sacerdozio, la santità e l’indissolubilità del matrimonio – tutto questo viene ereticamente negato in aperta contraddizione con il Vaticano II da una maggioranza di vescovi e funzionari laici tedeschi (anche se mascherati da frasi pastorali)».
Questa maggioranza di vescovi e funzionari laici tedeschi, «nonostante tutto l’apparente entusiasmo che esprimono per Papa Francesco, stanno negando categoricamente l’autorità conferitagli da Cristo come successore di Pietro. Il documento della Congregazione per la Dottrina della Fede sull’impossibilità di legittimare le unioni omosessuali ed extraconiugali attraverso una benedizione è ridicolizzato da vescovi, preti e teologi tedeschi (e non solo tedeschi) come semplice opinione di funzionari curiali poco qualificati. Qui abbiamo una minaccia all’unità della Chiesa nella fede rivelata che ricorda per dimensioni la secessione protestante da Roma nel XVI secolo. Data la sproporzione tra la risposta relativamente modesta ai massicci attacchi all’unità della Chiesa nella “via sinodale” tedesca (così come in altre pseudo-riforme) e la dura disciplina applicata alla vecchia minoranza rituale, viene in mente l’immagine del vigile del fuoco mal consigliato che – invece di salvare la casa in fiamme – salva prima il piccolo fienile accanto ad essa». Mentre «si ignorano i sentimenti religiosi dei partecipanti (spesso giovani) alle Messe secondo il Messale Giovanni XXIII (1962)», che, invece, vengono colpiti duramente. «Sembra anche semplicemente ingiusto abolire le celebrazioni del “vecchio” rito solo perché attira alcune persone problematiche: abusus non tollit usum», precisa il card. Müller.
«Ciò che merita particolare attenzione nella Traditionis Custodes è l’uso dell’assioma lex orandi-lex credendi (“regola della preghiera – regola della fede”). Questa frase appare per la prima volta nell’Indiculus antipelagiano (“Contro le superstizioni e il paganesimo”) che parlava dei “sacramenti delle preghiere sacerdotali, tramandati dagli apostoli per essere celebrati uniformemente in tutto il mondo e in tutta la Chiesa cattolica, così che la regola della preghiera è la regola della fede”» (Denzinger Hünermann, Enchiridion symbolorum, n.3). Questo si riferisce alla sostanza dei sacramenti (in segni e parole), ma non al rito liturgico, esistendone diversi (e con diverse varianti) in epoca patristica. Non si può semplicemente dichiarare che l’ultimo Messale sia l’unica norma valida della fede cattolica senza distinguere tra la «parte che è immutabile in virtù dell’istituzione divina e le parti che sono soggette a cambiamenti» (Sacrosanctum Concilium, n. 21). I riti liturgici che cambiano non rappresentano una fede diversa, ma piuttosto testimoniano l’unica e stessa Fede Apostolica della Chiesa nelle sue diverse espressioni».
«La lettera del Papa conferma che permette la celebrazione secondo la forma più antica a certe condizioni. Egli indica giustamente la centralità del canone romano nel Messale più recente come cuore del rito romano. Questo garantisce la continuità cruciale della liturgia romana nella sua essenza, nello sviluppo organico e nell’unità interna. Per essere sicuri, ci si aspetta che i cultori dell’antica liturgia riconoscano la liturgia rinnovata; così come i seguaci del Messale di S. Paolo VI devono anche confessare che anche la Messa secondo il Messale di S. Giovanni XXIII è una vera e valida liturgia cattolica, cioè contiene la sostanza dell’Eucaristia istituita da Cristo e, quindi, c’è e può esserci solo “l’unica Messa di tutti i tempi”».
Bisognerebbe avere una migliore conoscenza della dogmatica cattolica e della storia della liturgia per «contrastare l’infelice formazione di partiti contrapposti e anche salvare i vescovi dalla tentazione di agire in modo autoritario, senza amore e con mentalità ristretta, contro i sostenitori della “vecchia” Messa. I vescovi sono nominati come pastori dallo Spirito Santo: “Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge di cui lo Spirito Santo vi ha fatto custodi. Siate pastori della chiesa di Dio, che Egli si è comprata con il proprio sangue” (Atti 20, 28). Essi non sono semplici rappresentanti di un ufficio centrale – con possibilità di avanzamento. Il buon pastore si riconosce dal fatto che si preoccupa più della salvezza delle anime che di raccomandarsi a un’autorità superiore con un “buon comportamento” servile (1 Pietro 5, 1-4). Se la legge di non contraddizione si applica ancora, non si può logicamente castigare il carrierismo nella Chiesa e allo stesso tempo promuovere i carrieristi».
Infine, una speranza: «Speriamo che le Congregazioni per i Religiosi e per il Culto Divino, con la loro nuova autorità, non si inebrino di potere pensando di dover condurre una campagna di distruzione contro le comunità del vecchio rito – nella sciocca convinzione che così facendo stanno rendendo un servizio alla Chiesa e promuovendo il Vaticano II». Se la Traditionis Custodes deve servire all’unità della Chiesa, conclude il cardinale, «ciò può significare solo un’unità nella fede, che ci permette di “giungere alla perfetta conoscenza del Figlio di Dio”, cioè l’unità nella verità e nell’amore (cfr. Ef 4,12-15)».
Venerdi, 23 luglio 2021