di Chiara Mantovani
Appassionati alle serie televisive di Netflix? Lasciate vedere ai vostri bambini i cartoni animati della Disney ‒ guardandoli anche voi, poiché in effetti sono bellissimi ‒ sebbene con le antenne attente a captare i viraggi compiacenti verso ideologie pro-gender? Forse dovrete preoccuparvi. Disney e Netflix hanno minacciando di boicottare la produzione in alcuni Stati dell’Unione nordamericana, con due conseguenze notevoli: meno programmi per noi e, soprattutto, disoccupazione per tante persone negli Stati disertati.
Tutta colpa dell’aborto. Cioè, delle leggi che dall’inizio dell’anno si susseguono in diversi degli Stati Uniti, limitando fortemente i casi di liceità dell’aborto. Due colossi della propaganda progressista non potevano non aversene a male e, a modo proprio, non tentare di arginare con il ricatto economico l’avanzata di una mentalità a favore della vita. Netflix ha comunicato che la decisione ha a che fare con la protezione delle «molte donne che lavorano nelle produzioni in Georgia i cui diritti, insieme a quelli di milioni di altre donne, saranno gravemente limitati da questa legge»*. In verità la legge vieta l’aborto da quando è percepito il battito cardiaco fetale, ovvero intorno alla sesta settimana dal concepimento. Anche a digiuno di medicina, non è difficile sostenere che se c’è un cuore che batte in un essere di specie umana, quello è un uomo vivo. Dunque, che cosa c’entrano i diritti delle donne? Qui si fa riferimento al diritto di non essere uccisi quando si è vivi: il che, francamente, non fa una piega e sta alla base di ogni ordinamento giuridico.
Aumentano anche gli Stati in cui l’aborto è vietato anche in caso di stupro o incesto: è ragionevole chiedersi che colpa ha il concepito? E non siamo disposti a fare di tutto per comprendere, aiutare, consolare chi è stato vittima di un sopruso così grande come la violenza di uno stupro o di un incesto? Siamo davvero sicuri che far finta che non sia mai accaduto nulla costituisca l’unica alternativa per le donne?
Nel 2018, secondo l’Alan Guttmacher Institute, 15 Stati hanno adottato 27 nuovi limiti all’aborto. La notizia è rilevante perché la fonte è al di sopra di ogni sospetto e perché costituisce – per una volta – un piccolo bollettino di sconfitta: il Guttmacher è un’organizzazione fondata nel 1968 per studiare, educare e promuovere la salute e i «diritti sessuali e riproduttivi» con un budget dichiarato di 19 milioni di dollari, collegato e affiliato con i principali network abortisti, quali la Planned Parenthood e il Population Council. Una vera macchina da guerra antinatalista ed eugenetica, che porta il nome di Alan Frank Guttmacher (1898-1974), succeduto a Margaret Higgins Sanger (1879-1966) alla guida appunto della Planned Parenthood, nonché vicepresidente della American Eugenics Society. Sostenitore della prima ora delle teorie malthusiane e amico personale della Sanger, condivideva con lei la persuasione della insignificanza biologica nella identità sessuale, brevemente ma non erroneamente detta gender.
Vale comunque la pena di ricordare che Georgia, Alabama, Missouri, Louisiana, Kentucky, Mississippi e Ohio – solo per nominare alcuni degli Stati dove sono state approvate restrizioni all’aborto visto come un diritto indiscutibile della donna – colgono oggi qualche risultato di un lungo e paziente lavoro di informazione scientifica e testimonianza di vita delle organizzazioni pro-life, non disgiunto da uno sguardo di fede. Negli anni 1970 e 1980 vi sono stati anche movimenti e singoli che hanno utilizzato modi francamente non leciti per ostacolare gli aborti. Hanno pagato, a volte anche con il carcere, gli eccessi. Ma il sentire profondo che nessun avvenimento giustifica l’uccisione di un essere umano è penetrato in profondità nella mentalità di molti. E pian piano, di fronte anche alla banalizzazione dell’atto abortivo, alle evidenze scientifiche che non lasciano spazio alle ideologie, alle esperienze comuni di sofferenza che ne derivano e ai dati oggettivi dei milioni di bimbi non nati, la coscienza americana inizia a smuoversi. Non si spiega altrimenti la partecipazione via via crescente che riunisce ogni anno centinaia di migliaia di persone per la Marcia per la Vita, in gennaio, a Washington, nel triste e iconico anniversario della sentenza pronunciata dalla Corte Suprema federale del 1973 al termine del caso Roe v. Wade, che, sulla base di false prove costruite ad arte, legalizzò l’aborto.
Quest’anno il titolo della Marcia americana è stato: «Unico fin dal primo giorno: pro life è pro-scienza». E la buona scienza non può che essere pro-life.
Mercoledì, 5 giugno 2019