Conservare vuol dire prima restaurare che non mantenere lo status quo: una riflessione a margine di uno spunto del card. Joseph Ratzinger
di Oscar Sanguinetti
Il ricco e profondo magistero del Papa emerito tornato pochi giorni fa al Padre è contenuto nelle centinaia di testi che egli ha pubblicato, da teologo, da professore, da cardinale e, infine, da pontefice. Ma lo si trova anche condensato in piccoli ma memorabili passaggi, autentiche “perle” dei suoi discorsi, omelie e saggi. Tutti, per esempio, ricordano la magistrale e altamente sintetica formula «riforma nella continuità del medesimo soggetto-Chiesa» per dire che cosa era stato, al di là delle polemiche incrociate, il vero senso del Concilio Vaticano II. Oppure la precoce intuizione, della fine degli anni 1950, dello spopolamento delle file dei fedeli — sino a ridursi a un “piccolo gregge” — che la Chiesa avrebbe conosciuto nei decenni a venire.
Ma ve n’è uno che mi risuona particolarmente frequente nelle orecchie in questi giorni di inizio 2023 e che mi pare pertinente per aiutarci a comprendere meglio il tempo presente. È un insegnamento che egli applicava in primis alla Chiesa. Mi riferisco a quella felice risposta che egli, ancora cardinale e prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede diede al giornalista Vittorio Messori che lo intervistava nell’agosto del 1984 a Bressanone, in Alto Adige, dove Ratzinger passava qualche settimana di vacanza e di studio, un colloquio da cui sarebbe nato il famoso libro Rapporto sulla fede. Vittorio Messori a colloquio con il cardinale Joseph Ratzinger , pubblicato nel maggio del 1985, alla vigilia del Sinodo Straordinario sul ventennale dell’assise ecumenica, celebrato dal 24 novembre all’8 dicembre di quell ’anno.
Interpellato su quale fosse il vero “spirito” del Concilio, l’allora presule ebbe a rispondere: «Molti dimenticano che il concetto conciliare opposto a “conservatore” non è “progressista” ma “missionario”» (p. 9).
Questo insegnamento, valido in ambito ecclesiale, stimola tuttavia la riflessione anche in altre prospettive. Di esso mi pare infatti sia lecito, ovviamente in via analogica, fare tesoro utilizzandolo come criterio per capire meglio dove sta andando oggi la società civile e, al suo interno, la politica.
Trasferendoci dall’orizzonte ecclesiale a quello, distinto ma non separato, secolare, spostandoci cioè sul piano della filosofia politica, la medesima distinzione mi pare si possa applicare in generale al ruolo della politica ma, in particolare, alle caratteristiche che dovrebbe avere un movimento o un partito che voglia definirsi conservatore. La sua prospettiva, la sua intentio, dovrebbe quindi essere non tanto voler conservare questo o quell’elemento meno “radicale” o più “moderato” della situazione presente, bensì soprattutto quella di ricostruire un futuro secondo i principi che il progressismo, potremmo dire la Rivoluzione moderna, autentica utopia gnostica di massa, organizzata e armata, nega e combatte. Questo non va contrapposto dialetticamente alla difesa dell’esistente: anche il missionario religioso ad gentes cerca di difendere la bontà residua dei costumi dei “missionati” per poi purificarli. Il conservatore applica la legge dell’“ et, et”: difende e riedifica, senza disprezzare il poco di buono che sopravvive e quello che di sicuro, anche solo come “scarto di produzione”, rinasce. L’accento, la priorità che lo anima è lottare per ricostruire, per ricreare forme di convivenza collettiva in linea con l’idea di creazione e con una corretta antropologia, che non escluda il destino eterno dell’anima individuale. Nessun amore per lo status quo in quanto tale deve animare il conservatore: egli o ella deve invece, con lo stile accennato, ricostruire, mutatis mutandis e giorno dopo giorno, un mondo diametralmente opposto al mondo plasmato dalla modernità radicale, un mondo che, si badi bene — egli lo sa, perché non disprezza il magistero sociale della Chiesa e ricorda le parole di Leone XIII nell’enciclica Immortale Dei —, è già esistito fra il Natale dell’anno 800 e la Rivoluzione francese e non è da inventare.
Attenzione, però: il conservatore non ama neppure l’utopia al contrario, la nostalgia romantica di un mondo che non c’è più e che non ci sarà più così come è stato. Tanti nostalgici della cristianità si rifugiano nel mito, amano giocare a dame e cavalieri e dimenticano che allora non c’era l’elettricità, gli inverni erano gelidi, non si andava in automobile e si moriva di peste o di vaiolo con estrema facilità… Il conservatore desidera certo un mondo “a misura d’uomo e secondo il piano di Dio” — come dirà san Giovanni Paolo II —, ma senza che questo si traduca in un regresso, magari di secoli: egli, al contrario, pur amando “il buon tempo antico”, tesaurizza accuratamente le conquiste del progresso materiale, depurandole dalle schiavitù che esso crea. La tragica discrasia fra progresso materiale e brutale regresso verso la barbarie nelle idee, nei costumi, nella bellezza è il male che oggi ci affligge.
Non è illecito desiderare e operare per far rinascere un mondo che torni a essere popolato di cattedrali e persino imperniato su un nuovo feudalesimo — sì, anche su questa realtà, che decenni di egemonia culturale marxista hanno caricato della peggiore semantica, ma che in realtà significa solo rapporto da uomo a uomo, non regolato da contratti formali e dalla burocrazia ma dalla consuetudine —, dove risplenda la “verità delle cose” e la Verità con la maiuscola, dove i rapporti fra le genti siano di reciproca e pacifica assimilazione e non di conflitto. Un mondo che si riconquista passo dopo passo, piccola vittoria dopo piccola vittoria, partendo dal basso, ricostruendo legami e tessuto sociale sani, senza grandi piani strategici ma vincendo ogni giorno al proprio interno, nella propria anima, la propria piccola ma dura “guerra santa”.
Venerdì, 20 gennaio 2023