di Domenico Airoma
«Questo è un caso disperatamente triste». Così esordiscono i giudici di Londra nel provvedimento con cui confermano la condanna a morte del piccolo Alfie Evans. Ma hanno ragione solo a metà. Certo, non possono non essere tristi i genitori di Alfie, costretti a subire l’ennesima ingiustizia. Ma non si può dire che manchi loro la speranza.
Disperati sono, in realtà, proprio quei giudici. Liquidando Alfie come un bambino solo apparentemente normale («Alfie looks like a normal baby»), hanno deciso che il suo miglior interesse è quello di morire e che non può continuare a vivere né nell’Alder Hey Children’s Hospital né altrove. Hanno deciso, insomma, che non può e non deve nutrire alcuna speranza; né lo possono i suoi genitori. Perché così ha stabilito il freddo calcolo della scienza medica. Game over, insomma; i giochi sono fatti e consentire di riaprirli è pericoloso: significherebbe mettere in discussione l’unico parametro di certezza che è concesso a questo mondo e a questo diritto della post-modernità.
Disperati e tristi dovrebbero essere i tanti difensori dei diritti di Caino, che tacciono dinanzi ad Abele portato al patibolo: a tutti è concessa another chance, un’altra opportunità; a tutti tranne che ad Alfie e ai loro genitori. Nessuna mobilitazione, niente bandiere arcobaleno, neppure uno straccio di sciopero della fame. Non c’è un giudice a Londra. E neppure a Strasburgo, anche se la Corte che lì ha sede è consacrata al rispetto dei diritti dell’uomo.
Eppure Thomas Evans e Kate James, i genitori di Alfie, hanno chiesto proprio a quei giudici – i giudici dei diritti che spettano a ogni uomo per natura – quella giustizia che era stata loro negata nel proprio Paese. Senza avere risposta. Quali diritti può, in fondo, reclamare chi come Alfie sembra solo un uomo normale, ma normale non è?
Il caso è chiuso, insomma. Ma non per Thomas e Kate. Come per Antigone con Creonte, Thomas e Kate probabilmente continueranno a sfidare il tiranno, anche se in toga. Perché non basta una legge o una sentenza a cancellare ciò che spetta per natura ad Alfie poiché scritto dalla mano di Dio. La loro sarà presentata come un’ostinazione egoistica. E dovranno soffrirne, più che per la morte, annunciata, del piccolo Alfie: perché quel loro affetto pieno di speranza sarà etichettato come un amore criminale. Ma la loro sofferenza, il martirio loro e di Alfie non sarà invano. Come non è stato invano quello del piccolo Charlie Gard.
Nel torpore di un mondo che non si fa più domande, che non pone più certe domande, Alfie è “la” domanda che svela la nudità del re di questo mondo. La speranza non è definita da una sentenza perché non finisce in questo mondo. Il martirio di Alfie non sarà invano se, allora, saremo capaci di capire il senso e, soprattutto, di farne il senso della nostra battaglia per una nuova civiltà. Riappropriamoci della speranza e lasciamo i giudici di Londra e Strasburgo nella loro disperante tristezza!