Tra i maggiori poeti cristiani del Novecento, Domenico Giuliotti (1877-1956) è anche un battagliero polemista contro-rivoluzionario, nonché un acuto critico della modernità letteraria e politica degli anni a cavallo fra la fine del secolo XIX e la prima metà del secolo XX. Figura schiva e poco amante delle luci della ribalta, tuttavia il suo impegno culturale, nonostante momenti di bassa e di alta tensione, rimane un riferimento obbligato per chi intenda coltivare le lettere umane in prospettiva di fede integrale e non tema di lottare contro i “mostri sacri” della cultura, sempre più sfilacciata e “debole”, del Terzo Millennio.
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Cenni biografici
Domenico Giuliotti nasce a Luciana, frazione di San Casciano in Val di Pesa (Firenze), il 18 febbraio 1877. È figlio unico di un fattore della vicina Verrazzano, che muore precocemente, nel 1894. Così, Giuliotti e la madre si trasferiscono — saltuariamente a partire dal 1894 e poi stabilmente dal 1906 — a Greve in Chianti, nella casa di uno zio paterno, che alla sua morte, nel 1912, non avendo figli, lascerà in eredità al nipote la propria dimora e qualche piccolo possedimento terriero. Domenico viene fatto studiare in vista di una carriera nell’avvocatura. Ma il giovane si applica svogliatamente perché è precocemente rapito dal fascino delle lettere e della poesia, che legge avidamente e senza sosta e in cui pure si cimenta fin dalla prima giovinezza. Finisce così il liceo classico solo nel 1899. Subito dopo s’iscrive a Giurisprudenza a Siena per poi ostentare — ma non avverrà — di voler concludere il cursus studiorum alla Sapienza di Roma, dove si sposta nel 1903. Giuliotti abbandona — forse sarebbe più appropriato dire: accantona… — la fede cristiana nell’adolescenza e fino circa ai trent’anni si professa aridamente ateo e, in politica, prima ferventemente mazziniano poi ardentemente anarchico-socialista. Scriverà di sé: «[…] avevo su per giù vent’anni. Ostentavo una chioma rosso-rame, portavo una cravatta svolazzante e, nel cervello, pieno di ditirambi, mi sventolava il labaro dell’anarchia»[1].
Piuttosto che i circoli operai che allora iniziano a pullulare nella sua Toscana, egli però frequenta i cenacoli culturali “scapigliati” fiorentini, autentica incubatrice delle nuove correnti espressive e fucina dell’“avanguardia” artistica, cui si accompagna un autentico brulichio di riviste di cultura. Allora, nella letteratura dell’Italia da non molto unita, mentre tramonta il classicismo carducciano ancora classicista e scultoreo, sono in auge i paradigmi “deboli” del decadentismo “crepuscolare” alla Guido Gozzano (1883-1916), i “pascolismi” e gli estetismi dannunziani, mentre balenano i primi deliri futuristi.
A questa condizione di crescente estenuazione e svigorimento delle lettere italiane, cui sente via via più estranei la sua poetica, pur ancora in fieri, e il ruolo che egli concepisce debba avere l’opera del letterato, il giovane Giuliotti si rende conto sempre più distintamente di dover reagire.
Fra il 1908 e il 1910 matura in lui il ritorno alla fede. A misura che sente rifiorire più nitidi dentro di sé i semi dell’antica religiosità di famiglia, avverte sempre più vivamente la crescente emarginazione delle lettere religiose. E l’impulso che si sviluppa in lui verso la riscoperta della vita soprannaturale si accompagna a una ogni giorno più lucida percezione dei pesanti limiti della civiltà moderna, secolarizzata e scettica e, di più, ostile a ogni prospettiva metafisica. In particolare, si stagliano sempre più nitidi al suo sguardo i difetti della cultura artistica del suo tempo, un tempo in cui si attua la svolta fra la modernità razionalistica sette-ottocentesca e la post-modernità relativistica novecentesca, fra il positivismo tecno-industriale e l’esistenzialismo, fra il carduccianesimo e il “crepuscolarismo” intimistico, fra il teleologismo hegeliano e marxista e lo stagliarsi sempre più netto del superomismo nietzscheano.
Il Giuliotti “pre-cristiano” cercherà d’inserirsi anch’egli nella corrente di rinnovamento post- e anti-romantico che vede nascere e svilupparsi sotto i suoi occhi, ma lo giudicherà presto uno sforzo pur sempre ristretto entro i limiti di una visione estetica influenzata dai paradigmi del moderno. Sarà la fede riconquistata a trasformare il suo incipiente “essere contro” culturale, ancora permeato d’istintualità, in una visione estetica e morale compiuta e in un impulso all’azione robusto e radicalmente antagonistico.
1° dicembre 1916, a trentotto anni, Giuliotti è chiamato alle armi, ma assegnato al Comando supremo di Roma. La “trincea” incruenta in cui si trova affondato dalla sorte gli rende possibile continuare la stesura del libro che gli darà in seguito la notorietà: l’Ora di Barabba.
Nel marasma intellettuale e civile causato dal tremendo conflitto mondiale capirà che esso è stato il frutto avvelenato, maturo e inevitabile di quelle orgogliose ideologie secolaristiche e prometeiche che hanno dominato il secolo XIX e che in quegli anni riprendono a imperversare nello spazio pubblico con ancora maggior pervicacia rispetto a prima, sebbene in altra forma. Di qui l’ardente appello ai letterati cattolici a reagire, a combattere le visioni del mondo, incluse le loro espressioni letterarie, che animano le forze ostili a tali radici e a ricuperare l’antico ethos italiano.
Il bersaglio preferito dell’«omo salvatico», come si autodefinirà — cioè dell’uomo «[…] che rifugg[e] dalla civiltà se per civiltà s’intende quella che romba e lorda nelle città moderne del sedicente mondo civile»[2], e del cristiano di paese — sarà spesso il benpensante — un’altra definizione di se stesso sarà quella di «malpensante» —, il borghese, visto non tanto come esponente di una classe sociale ma come espressione, localizzabile in un ceto, di una mentalità cittadina, secolarizzata, materialistica e ipocrita, spesso falsamente cristiana.
Della civiltà moderna altrove egli scrive: «Io sono un dichiarato, un aperto, un irriducibile nemico della civiltà moderna. Questa sozza baldracca turpiloquente, vestita d’oro e ripiena di vermi, dov’ha toccato ha appestato. Essa ha innalzato i meccanici al di sopra dei poeti, i banchieri al di sopra de’ santi, il Diavolo al di sopra di Dio. Perciò l’odio. Essa, la stolta, avrebbe dovuto, quand’era tempo, buttarsi in ginocchio, per salvarsi, ai piedi di Cristo; avrebbe dovuto lavarli con le sue lacrime, asciugarli con i suoi capelli, ungerli col più prezioso dei suoi unguenti. Invece, inorgoglita dalla propria grassezza bolsa, ha levato, tra i battimani degli innumerevoli suoi drudi, la fronte impudica, e alla Luce del Mondo, bestemmiando, ha sputato in faccia»[3].
Il 29 novembre 1905 sposa a Siena Zina Vestri (?-1957), di una famiglia di tradizioni repubblicane, garibaldine e massoniche. La coppia non avrà figli.
Da questa data in avanti la vita del poeta si svolgerà pressoché ininterrottamente nell’isolato paesino di Greve nella Valle del Chianti — a una trentina di chilometri dall’ex capitale granducale —, dove è ospite della zia Teresa Carloni (?-1930), vedova del fratello del padre, il notaio Virgilio, sbarcando il lunario con le esigue rendite di alcuni poderi ereditati da questi. Eccezione all’isolamento dello scrittore è la settimanale ascesa a Firenze. Qui Giuliotti frequenta i caffè, come il celebre “Le Giubbe Rosse”, luogo di ritrovo del nutrito cenacolo di letterati, toscani e non, che vive nell’antica città medicea, ed è cliente abituale delle numerose bancarelle di libri usati, come pure delle librerie “serie” e di quelle della “buona stampa”, nonché visitatore assiduo delle officine di editori amici. Altre mete delle sue rade sortite da Greve saranno i luoghi francescani, Siena e Roma.
Benché solitario e appartato, egli riceve frequenti visite di amici, simpatizzanti, intellettuali, lettori delle sue opere, come pure di semplici curiosi.
L’eco del turbolento mondo della prima metà del Novecento arriva affievolita a Greve, in una campagna ancora patriarcale, dai ritmi di vita lenti e ripetitivi, fasati sul ciclo di coltivazione della vite e della produzione vinicola. Pur nel suo volontario romitaggio, egli non è digiuno della temperie del mondo perché ne ha fatto una esperienza “di qualità” in gioventù, durante la guerra, nei soggiorni in grandi centri come Firenze e Roma. Come Gustave Thibon (1903-2001), sebbene abbia scelto volontariamente l’esilio in campagna per la maggior parte della sua vita, Giuliotti non è un contadino vero e proprio ma un intellettuale “deraciné-enraciné”.
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Le idee e la poetica
Le idee a lui care, cioè quelle che professa dopo la conversione e che lo accompagneranno fino alla morte, sono molteplici e multiformi. Egli ha una decisa predilezione per le opere degli autori spirituali: raramente dai suoi scritti traspaiono letture sistematiche di politica e di filosofia, a eccezione forse di quelle degli autori che ha tradotto. Conosce pressoché tutti gli scrittori cattolici del suo tempo, con preferenza per quelli che allora in Europa si collocano in una prospettiva che potremmo definire, anche se con non poca approssimazione, “di destra”, quel cattolicesimo a lui contemporaneo che, mentre declina l’intransigentismo, si riscopre anti-moderno, nostalgico della cristianità e animato dal culto della tradizione.
Di Léon Bloy (1846-1917) — l’autore che dice di aver letto tutto e quello che avrà il maggior influsso sulle sue idee e sulle sue opzioni letterarie — tradurrà L’anima di Napoleone, mentre intratterrà frequentazioni assidue con le opere di Juan Donoso Cortés (1809-1853) — che farà tradurre —, con Joseph de Maistre (1753-1821) — che pure tradurrà di persona —, con Ernst Hello (1828-1885), con Gilbert Keith Chesterton (1874-1936), con Jules-Amédée Barbey d’Aurevilly (1808-1889) e con Antoine-Joseph-Elisée-Adolphe Blanc de Saint-Bonnet (1815-1880). Estemporaneamente legge persino il card. Louis Billot (1846-1931), il grande teologo tomista che getterà il galero alle ortiche quando, nel 1926, Papa Pio XI (1922-1939) scomunicherà Charles Maurras (1868-1952), il fondatore dell’Action Française.
La sua anti-modernità attinge largamente alla sua preferenza per il cristianesimo “forte”, rigoroso, agonistico e antagonistico e la sua verve polemica si alimenta ampiamente alla critica veicolatagli dagli autori che ho citato.
Giuliotti tuttavia non è “organico” a nessuna cultura: egli è troppo, come si dice, un “cane sciolto”. Oltre misura a suo agio nel suo “mondo piccolo” e troppo geloso della libertà che dà l’isolamento — senza dimenticare le frequenti e improvvise cadute in stato depressivo —, dopo gli anni giovanili egli stenta a legarsi a qualunque ambiente culturale e, se lo fa, lo fa in maniera discontinua, irregolare, a pause e “strappi”. L’unica eccezione è il duraturo e fecondo legame di amicizia con Giovanni Papini (1881-1956), altro grande rappresentante delle lettere cattoliche, destinato tuttavia a una ben più larga notorietà nelle lettere patrie e che morirà pochi mesi dopo l’amico.
Comunque, Giuliotti rivela una buona conoscenza degli autori della “destra” cattolica — non esita a dire di sé: «Io sono, per temperamento, un cattolico dell’estremissima destra»[4] —, anche se quasi esclusivamente di scrittori francesi e inglesi — l’unico spagnolo che nomina con qualche frequenza è Donoso Cortés —, conoscenza che nella maggior parte dei casi diventa simpatia e riferimento “forte”. I richiami più frequenti sono alle figure, non del tutto assimilabili fra loro, di Joseph de Maistre e di Louis de Bonald (1754-1840). Tuttavia, Giuliotti non è estraneo a quella “seconda scolastica” contro-rivoluzionaria che fiorisce, in feconda dialettica con il magistero dei Papi, nel tardo Ottocento e che razionalizza la morfologia e l’eziologia morale della patologia rivoluzionaria, ne individua il carattere processuale e identifica la “terapia” — di natura essenzialmente metafisica e spirituale — attraverso la quale la civiltà occidentale può guarirne.
Tutte queste letture contribuiscono a rafforzare in lui l’idea che il tempo in cui vive è un tempo di apostasia e di rivoluzione, di decadenza intellettuale e morale, di perpetua inquietudine sociale, il cui “motore” è, sotto le false parole d’ordine dell’emancipazione e del progresso, l’ideologia della modernità, dell’autosufficienza dell’uomo, della fanatizzazione del presente e del “nuovo”. Il suo tuttavia non è un cattolicesimo conservatore “colto”, “da intellettuali”, ma un cattolicesimo popolare, dagli accenti che si potrebbero chiamare “sanfedisti”: nella sua mediazione concettuale fra i principi e la prassi prevalgono sulle teorie compiute, sulle dottrine morali e sociali, il senso comune e la narrazione scritturale, con i suoi coloriti simboli e modelli. Le diagnosi che Giuliotti fa dei vari “mali” del suo secolo sono precise e appuntite, i suoi giudizi, specialmente sulle persone, radicali e taglienti, le sue inimicizie totali e veementi. Ma la sua riscoperta del cristianesimo non è solo di pelle: coltivata nel minuscolo ambiente in cui vive — che fa come da guscio, in cui la temperatura si innalza — e ravvivata da una liturgia ricca e sfavillante, non ancora percorsa dai fremiti di scialba “orizzontalità” che serpeggeranno qualche anno dopo la sua morte —, la grazia abita in lui, sebbene le sue prese di posizione si mantengano sempre accese e apparentemente ingenerose. E, se vi è un esempio di carità vissuta che si contempera con l’ossequio, anzi con il culto, della verità, questo è proprio Domenico Giuliotti: anche se attacca, anche se investe, anche se azzanna, egli non morde — come un “Domini canis” — per cattiveria ma solo per amore sconfinato del vero e a vantaggio della salus animae del destinatario della sua invettiva o esecrazione.
La radicalità del suo accostamento alla fede ricuperata si traduce in temporalibus — nella vita privata, come nelle opzioni politiche — in una decisa antipatia per ogni formula di compromesso: avrà particolarmente “in uggia”, per dirla alla toscana, la democrazia cristiana, ben inteso non quella teorizzata da Papa Leone XIII (1878-1903), bensì quella che discendeva “per li rami” dall’opzione democratico-secolaristica dell’ex reazionario Hugues-Félicité Robert de Lamennais (1782-1854), così come non amerà il popolarismo sturziano del primo dopoguerra. Anche durante il Ventennio, nonostante una certa simpatia per l’Uomo e le sollecitazioni degl’intellettuali “di regime” — la maggior parte per opportunismo, come si vedrà non appena caduto il Duce —, manterrà un atteggiamento distaccato e defilato.
Tutto ciò premesso, cercando di considerare anche il classico “rovescio di medaglia”, si deve rilevare come i suoi riferimenti teologici e spirituali “saltino” dai mistici medioevali all’Ottocento avanzato: tutto quanto vi è in mezzo, ed è tanto, di filosofico e di spirituale pare a lui estraneo. Pur considerando che si converte in età non più giovanissima e che vive assai appartato, sembra proprio che lo sforzo di Giuliotti per riappropriarsi della grande tradizione di pensiero della cattolicità sia obiettivamente limitato ai riferimenti ai pochi autori a lui più cari.
E questa notazione fornisce un elemento-chiave per inquadrare il personaggio e la sua sensibilità: Giuliotti non è un intellettuale, ma fondamentalmente un poeta e un uomo di fede: anzi un artista che esprime la sua fede, ergo evangelizza, usando la parola scritta. Non gl’interessa la sistemazione concettuale fine a se stessa, nemmeno se indirizzata a un’azione di restaurazione culturale. Pur eminente letterato, i suoi rarefatti riferimenti dottrinali e la sua auto-referenzialità lo rendono meglio annoverabile nell’ambito del tradizionalismo d’influenza romantica, piuttosto che fra gli esponenti della Contro-Rivoluzione “scientifica”. Ciononostante, la sua resta una declinazione originale, “incartata” in una forma letteraria esteticamente pregevole e forse unica, della cultura conservatrice italiana — e di quella cattolica, in particolare — fra Otto- e Novecento.
Giuliotti non ha prodotto scritti di ampio respiro, ma ha preferito le liriche, gli aforismi, i pensieri, le meditazioni: la maggior parte dei suoi libri sono raccolte e antologie. Quello che di politico-culturale egli scrive, piuttosto che trattazioni organiche o sintesi storiche, sono commenti e prese di posizione riguardo ad avvenimenti “dell’ora presente”, a figure di singoli autori oppure a uscite di libri, che appaiono sulle riviste di cultura e sui quotidiani. Anche le sue “famose” invettive contro la civiltà moderna sono testi brevi e nati ex abrupto.
La poesia di Giuliotti s’inserisce nella grande tradizione della lirica religiosa italiana, che va da Jacopone da Todi (1236 ca.-1306) fino ad Alessandro Manzoni (1785-1873), da Dante Alighieri (1265-1321) a Clemente Rebora (1885-1957), da san Francesco di Assisi (1181 ca.-1226) a Cristina Campo (pseudonimo di Vittoria Guerrini; 1923-1977) e a tanti altri.
La spiritualità del solitario di Greve attinge a varie scuole, ma sembra prevalentemente ispirata dalla tradizione religiosa e culturale del francescanesimo, così “prossimo” alla sua patria toscana e così denso di richiami dai suoi “luoghi canonici”.
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L’epilogo
Domenico Giuliotti riceve l’olio santo l’11 gennaio 1956 e chiude gli occhi per sempre il giorno dopo, alle 9 e un quarto del mattino, nella casa dove ha sempre vissuto. Il giorno successivo le sue spoglie entrano nel vicino cimitero sul colle adiacente alla cittadina, a Melazzano.
Il suo elogio funebre, composto, a cura di Papini, da frasi tratte dai suoi scritti, reciterà: «Terra era il Primo Adamo, e terra il Secondo Adamo, e terra, com’Eva prima del peccato, la Vergine Madre dell’Uomo-Dio. Mi vergognerò io dunque d’esser terra? / Umile da humus: terra. L’umile sa d’esser terra e resta aderente alla terra, sebbene col desiderio del cielo. Non si appiccica le ali, ma chiede pregando, che Dio le faccia spuntare alla sua anima. E allora, il Creatore del cielo e della terra, ne fa un amore volante fino a sé. / Noi, domani, fantocci scarichi, sottoterra. Ma qualcosa, allora, di noi, vivo, via. E questo qualcosa (l’essenziale) inevitabilmente, di là, nero o bianco, sotto l’occhio di Dio, sempre. Domenico Giuliotti»[5].
Giuliotti è stato un “uomo-contro”, quasi un indesiderato “scarto di produzione” dell’umanesimo moderno, anche di quello cattolico: per questo la sua figura è comparsa e compare raramente nelle antologie, ma per lo stesso motivo è una preziosa figura vessillare per chi si pone su analoghe posizioni spirituali e ideali. È dunque doveroso che chi ama il “pensiero forte” ne conservi accuratamente la memoria.
18 dicembre 2020
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[1] Domenico Giuliotti, Pensieri d’un malpensante, 1935, n. ed., Logos, Roma 1984, p. 83.
[2] Giovanni Papini e Idem, Umilissime scuse. L’omo salvatico si difende, con una nota di Sergio Pautasso (1933-2006), Marietti, Genova 2000, pp. 7-10 (p. 7).
[3] Dai preti a Dio, in Idem, Tizzi e fiamme, 1925, n. ed., a cura di Massimo Baldini (1947-2008), Cantagalli, Siena 1999, pp. 43-52 (pp. 49-50).
[4] D. Giuliotti, Lettera “A padre Enrico Rosa”, in Lettere agli amici, introduzione di Geno Pampaloni (1918-2001), a cura di M. Baldini, Piergiovanni Permoli ed Ettore Tirinnanzi, La Locusta, Vicenza 1980, p. 40.
[5] Cit. in Idem e G. Papini, Carteggio, a cura di Nello (1907-2000) e Paolo Vian, 3 voll., Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1989, vol. III, 1940-1955, p. 344-345 (p. 345, nota dei curatori).