di Daniele Fazio
Il momento di preghiera voluto dal Santo Padre il 27 marzo a Piazza San Pietro ha incollato allo schermo, tramite vari media, milioni di persone nel mondo. Tutti hanno seguito una cerimonia scarna nella sua struttura, ma che, al tempo stesso, ha toccato in profondità il cuore. La forza delle immagini, suggestive e trascinanti, con segni decisi di rimando alla dimensione soprannaturale concretamente alla portata dell’uomo, grazie all’effige commovente del Cristo crocifisso e della sua santa Madre, hanno rappresentato un crescendo verso l’incontro di adorazione con Dio stesso presente sotto le specie eucaristiche: il Tutto nel frammento.
Papa Francesco ha rappresentato plasticamente non solo il carico delle sofferenze di questi giorni, ma anche la via per poter, più che spiegare, viverle. Nei suoi gesti e nelle sue parole ha additato nuovamente i sentieri di Dio all’uomo post-moderno che adesso si trova esattamente nella condizione spirituale, e per certi versi anche materiale, di quel tale – della parabola evangelica – che scendendo da Gerusalemme a Gerico è incappato nei briganti e giace al bordo della strada mezzo morto.
In questo grande ospedale da campo, il Successore di Pietro e Vicario di Cristo vuole curare queste ferite con la medicina della preghiera, con parole calde e ferme che toccano il cuore di quanti sinceramente si sono uniti a prescindere dalle loro motivazioni ed intenzioni. Quale sarà la risposta dell’uomo contemporaneo? Emozioni si rincorrono l’una dopo l’altra, ma, come si sa, le emozioni sono fugaci e momentanee. Nell’immediato sembrano sconvolgere la vita ed invece subito dopo sbiadiscono. Durano poco ma si possono anche configurare come un punto di partenza perché dal sentimento si passi alla riflessione e da questa alla convinzione o meglio ancora alla conversione. E così essere in grado di rispondere alla chiamata più alta che l’uomo può accarezzare: incontrare nel proprio cuore Dio.
Convertirsi significa tornare a casa. Verso quella casa, la Città santa, Gerusalemme, in cui è viva la presenza di Dio, in cui l’uomo vive alla sua presenza e con Lui fa la storia. Tornare a casa significa invertire la rotta, interrompendo la discesa rovinosa verso Gerico, città della secolarizzazione, per innalzare la nostra frammentarietà verso il Tutto. Tornare a casa è sconfiggere l’antico orgoglio del serpente che incita l’uomo a seguirlo convincendolo che Dio sia un avversario della sua felicità. Alla prova della storia questo edificio diabolico ancora una volta si dimostra fallimentare. Lo comprendiamo bene ai tempi del coronavirus in cui implode la presunzione dell’uomo che con la tecnoscienza si è creduto onnipotente, scacciando Dio dalla sua esistenza.
La conversione è certamente opera di Dio che vuole incontrare nell’intimo ogni uomo. A quest’ultimo spetta aprire il proprio cuore e riconoscerlo come Re e Signore della propria vita e della storia. È certamente un intreccio tra la libertà e la grazia, personale e intimo. Ma quando veramente si compie non solo può cambiare la vita dei singoli, ma è capace di rinnovare i contesti sociali in cui vivono. Infatti, così come soprattutto nel mondo moderno si è venuta a generare una struttura di peccato che ingabbia le società, allo stesso tempo, si pone la necessità di una conversione sociale che muta il volto della storia, a partire da ambienti e contesti umani che riconoscono l’importanza pubblica dei dieci Comandamenti e vivono la Regalità sociale di Gesù Cristo nella storia, rimarginando fratture plurisecolari e indicando il giusto rapporto dell’uomo con Dio, con gli altri uomini, con il creato e con se stesso: «la priorità riconosciuta alla conversione del cuore non elimina affatto, anzi impone l’obbligo di apportare alle istituzioni e alle condizioni di vita, quando esse provochino il peccato, i risanamenti opportuni, perché si conformino alle norme della giustizia e favoriscano il bene anziché ostacolarlo» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1888).
Lunedì, 6 aprile 2020