
Il 21 maggio 2025 si è tenuto presso l’Università di Torino un convegno intitolato “Il dialogo come scelta. Giornata di studi in memoria di PierLuigi Zoccatelli” . Sono intervenuti rappresentanti del mondo accademico e istituzionale, rappresentanti di vari gruppi e confessioni religiose, oltre al reggente nazionale Marco Invernizzi, e al nostro militante Oscar Sanguinetti. Quello che segue è l’intervento della moglie di PierLuigi, Daniela Bovolenta. Lo pubblichiamo a un anno esatto dalla scomparsa.
di Daniela Bovolenta
Nella giornata di oggi avete potuto farvi un’idea di alcuni degli interessi che hanno portato PierLuigi a diventare un punto di riferimento in vari ambiti.
Ma molti altri ne mancano: PierLuigi era stato da giovane il co-fondatore e la voce di un gruppo di musica post-industriale che ancora oggi ha lo status di band di culto in alcuni ambienti, poi un fotografo professionale, che ha scattato campagne pubblicitarie per grandi aziende a livello nazionale. Era stato più volte in Libano negli ultimi anni della guerra che si è protratta dal 1975 al 1990, per portare aiuti umanitari a scuole e orfanotrofi cristiani, mettendo le basi di un duraturo rapporto con alcuni leader delle forze maronite, in particolare con Jocelyne Khoueiry (1955-2020), che riuscì a rivedere poche settimane prima che lei morisse. Fu un raffinato conoscitore di arte moderna, di musica jazz, di storia del cinema, persino della complessa vicenda della storia delle Brigate Rosse, sulle quali tenne anche un corso all’Unità di Crisi dell’ONU…ma, al cuore di tutto ciò che faceva e studiava, c’erano due cose fondamentali: la sua fede e la sua famiglia. Ho avuto il privilegio di averle condivise entrambe.
In particolare, per quanto riguarda la fede, PierLuigi riusciva nella difficile impresa di tenere in equilibrio un profondo amore per la tradizione e l’ortodossia più rigorose con un atteggiamento di autentico amore verso il prossimo.
Durante una brevissima vacanza in Provenza nell’agosto del 2008, abbiamo visitato il monastero benedettino di Sainte-Madeleine a Le Barroux, fondato nel 1980 da dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), dove la liturgia è celebrata in forma tradizionale: cioè secondo il messale del 1962, precedente la riforma liturgica del 1969, in latino e con il canto gregoriano.
Il giorno dopo, in un momento che ci parve quasi un segno, un corvo, animale simbolo di san Benedetto, sorvolò il luogo in cui alloggiavamo, convincendo PierLuigi che ci si dovesse recare nuovamente al monastero.
Tornammo una seconda volta due giorni dopo la prima visita, ci confessammo, partecipammo alla santa Messa e ne uscimmo entambi profondamente toccati. Tornammo a casa in Italia decisi a non perdere quello che avevamo trovato e a coltivare, in qualche modo, il rapporto con quel luogo che ci sembrava un anticipo di Paradiso.
Nell’arco di pochi mesi chiedemmo di essere ammessi come oblati, dopo un anno di preparazione fummo investiti come novizi e l’anno successivo fummo accolti nella comunità come oblati.
Ma cosa significa essere oblati? Per comprenderlo, bisogna partire da un voto specifico dell’ordine di san Benedetto: il voto di stabilità. La stabilitas implica che il monaco instauri un legame principalmente con il monastero in cui chiede di entrare, più che con l’ordine in generale. Dipende dal suo abate e ha obblighi verso quella specifica comunità, come se entrasse a far parte di una famiglia. Lo stesso si applica agli oblati: sono considerati parte integrante della comunità, che nella comunione dei santi gode di tutte le grazie e le preghiere di quello specifico gruppo di persone. Così come i monaci in viaggio hanno il permesso di non seguire tutte le consuetudini e gli obblighi che seguono in monastero, anche gli oblati sono considerati monaci in viaggio: possono non alzarsi alla stessa ora, non dire lo stesso numero di uffici liturgici, non osservare il silenzio… tuttavia resta il loro legame spirituale con la comunità e la preghiera di ciascun membro della comunità ricade su tutti gli altri.
Essere oblati è dunque un impegno con un monastero, che comporta l’impegno ad approfondire la propria esperienza cristiana, tramite la lettura quotidiana della regola di san Benedetto e della Sacra Scrittura, la partecipazione alla Santa Messa, la recita di alcune ore liturgiche.
Si tratta di impegni che vanno rispettati però a una condizione, e cioè che non ostacolino e non interferiscano con la vita famigliare dell’oblato: una regola sempre valida per un cattolico è che il primo dovere è il dovere di stato. Ciò significa che una persona che trascuri i figli o il coniuge per passare lunghe ore in preghiera non si sta santificando, al contrario, sta trascurando il suo primo dovere. Lo stesso vale per i doveri verso il lavoro, il proprio ambito sociale, le comunità umane di cui si fa parte. Essere oblati dovrebbe metterci in grado di compiere tutti i nostri doveri di stato con una maggiore unione a Dio, santificando ogni attività che la nostra specifica vocazione di vita di richiede, riposo compreso. Mi rendo conto che si tratta di concetti un po’ inusuali in un’aula unversitaria, tuttavia non si capirebbe nulla di PierLuigi e del suo percorso umano e spirituale se si mettessero tra parentesi questi concetti.
PierLuigi in questo era molto scrupoloso: ogni mattina, mentre si vestiva, diceva le prime preghiere della giornata, faceva il suo lavoro con uno scrupolo e un’attenzione eccezionali, era attento a sua madre, che chiamava ogni giorno finito il lavoro, era attento ai nostri 5 figli, che sosteneva con tutte le sue forze, era attento a me in maniera commovente, anche dopo molti anni, affettuoso e pieno di pazienza e rispetto, anche quando non eravamo perfettamente d’accordo, era attento agli amici, con i quali riusciva ad avere un grado di vicinanza e supporto davvero unici.
Tutte queste cose dipendevano certamente in parte dalla sua natura carismatica e intelligente, ma altrettanto dipendevano da una grande disciplina interiore, che aveva le sue radici nella fede cattolica e nel desiderio di santità, e che aveva trovato il suo strumento di realizzazione grazie all’approfondimento del legame con l’ordine benedettino, della storia monastica, della liturgia tradizionale, e dell’applicazione della regola di san Benedetto alla propria vita.
La regola di san Benedetto è uno dei testi fondativi non solo del monacheimo occidentale, ma lascia il segno in tutta la cultura medievale e anche moderna. E per una ragione. E’ un capolavoro di equilibrio. Equilibrio nell’impiego del tempo, diviso equamente tra lavoro, studio e preghiera, equilibrio nei rapporti gerarchici, dove chi comanda deve guidare più grazie all’amore che alla paura e chi obbedisce deve farlo con fiducia e prontamente, equilibrio nella vita comunitaria, dove ciascuno ha un ruolo da svolgere e i più vigorosi non devono esssere frustrati nei loro slanci mentre i più deboli non devono essere messi da parte. Non so dire in quante circostanze PierLuigi, messo di fronte a una difficoltà o a un problema, tornava alla regola di san Benedetto per avere delle indicazioni su come agire. Persino la sua precisione quasi manicale in tutto derivava da questo modo di concepire la vita: diceva spesso “Io morirò invocando la filologia, le note a pie’ di pagina e la menzione delle fonti. Il resto viene dal maligno.” E con questo intendeva che della verità bisogna avere cura e coltivarla.
A proposito di coltivare, vorrei concludere con una citazione di dom Gérard Calvet tratta dalla lettera agli amici del monastero del 18 febbraio 1985, la traduzione è di PierLuigi, che l’aveva pubblicata sul suo blog Romualdica, un blog anonimo, alla maniera degli costruttori di cattedrali medievali, dove un solo articolo è stato firmato di suo pugno, tutti gli altri sono traduzioni di testi che hanno a che fare con la spiritualità monastica e la liturgia tradizionale. La costruzione di una civiltà cristiana, una cristianità, era il grande orizzonte ideale di PierLuigi, in cui ogni scelta e ogni gesto si inscriveva. Il testo da cui è tratta la citazione si intitola “Lo spirito di cristianità”:
Quando i primi monaci hanno fondato i loro monasteri nei paesi selvaggi dell’Europa, ciò che più tardi darà vita alla civiltà, essi hanno fatto tre cose: hanno coltivato la terra (un lavoro senza frode); hanno formato delle comunità fraterne, d’ispirazione familiare (in accordo con l’ordine naturale); hanno fatto salire il loro canto di lode a Dio, giorno e notte (ciò che li manteneva in contatto permanente con il loro fine soprannaturale). Il lavoro, la vita di famiglia, il canto liturgico: come si vede, si tratta di cose semplici e concrete, accordate alle aspirazioni naturali dello spirito umano. Allora “ha preso”, come si dice quando il fuoco si accende.
Vi è un inizio di cristianità ogni volta che qualcosa di santo e di rettificato esce dalla terra. Non si fabbricano dei valori di cristianità come non si fabbrica il grano che cresce; lo si coltiva, certo, lo si protegge, ma occorre anzitutto della buona terra e quel permesso divino composto da un accordo provvidenziale fra l’acqua, il sole e il lavoro degli uomini. Il radicamento benedettino ha dato vita all’Europa cristiana grazie a un’unione di fatti miracolosi che la storia registra sotto il nome di cause, ma che è in primo luogo un effetto interamente gratuito della grazia divina.
Quello che ha fatto PierLuigi nella sua vita è proprio questo: coltivare, coltivare virtù, rapporti famigliari, amicizie, conoscenza, bellezza, verità, in attesa che la grazia divina colmasse quel che manca.
Sabato, 24 maggio 2025