di Marco Invernizzi
1. Difficoltà di definizione
Partire da una definizione di liberalismo è impossibile perché, come scrive un uomo politico liberale, l’on. Valerio Zanone, “[…] esistono molti e diversi modi di essere liberale”; e cita a sostegno il politologo Giovanni Sartori secondo cui “[…] un liberale americano non sarebbe chiamato liberale in nessun paese europeo; lo chiameremmo un radicale di sinistra. Viceversa, un liberale italiano negli Stati Uniti sarebbe definito un conservatore”.
Oltre l’obbiettiva difficoltà di collocare politicamente la posizione liberale, rivoluzionaria o di sinistra alla sua origine, nel Settecento, contro l’Antico Regime, e spostata a destra o al centro quando la sinistra viene occupata dalle forze socialiste o comuniste, tento di identificare l’ideologia liberale.
Sempre l’on. Zanone ne individua i connotati nella libertà staccata dalla verità e assunta come una religione, e nella ragione che si oppone alla metafisica, inaugurando così il moderno relativismo: “In quanto radice della libertà, la ragione, figlia della discussione, si contrappone ai dogmi coltivati nella clausura: è antimetafisica, relativistica, tollerante e, di conseguenza, democratica. Le prime origini di questa filosofia politica vanno ricercate nel pensiero classico, presso i sofisti”. Al contrario – prosegue – “da Platone a Tommaso d’Aquino a Dante, i metafisici furono sempre spregiatori del principio di maggioranza in nome del principio di autorità”.
La descrizione è certamente esatta per la forma di liberalismo che si riallaccia direttamente ai princìpi della Rivoluzione francese e che anima le rivoluzioni nazionalistiche del secolo XIX nel continente europeo. L’aspetto nazionalistico, soprattutto in Italia, appare dominante, ma se si osserva l’opera legislativa dei governi seguenti l’unificazione italiana, si può facilmente riconoscere l’impronta liberale, cioè relativistica, nello smantellamento degli istituti e delle consuetudini naturali e cristiane del popolo.
2. Il liberalismo anglosassone o “liberismo”
Ma esiste anche un altro liberalismo, di origine anglosassone, spesso indicato come “liberismo”, per sottolineare l’antistatalismo della sua politica economica, e generalmente collegato agli anni 1980, cioè al governo guidato da Margaret Thachter in Inghilterra dal 1979 al 1990 e ai due successivi mandati di Ronald Wilson Reagan alla presidenza degli Stati Uniti d’America, dal 1980 al 1988.
Questo diverso liberalismo ha avuto poco seguito in Italia, sia in campo politico che intellettuale, fino alla nascita di Forza Italia, fondata nel gennaio del 1994 dal cavalier Silvio Berlusconi: l’Associazione del Buongoverno – promossa con altri da Marcello Dell’Utri e che di Forza Italia raccoglie il brains trust – nel luglio del 1994 pubblica come primo quaderno uno scritto, intitolato appunto Liberalismo, di uno dei principali pensatori della corrente, l’economista austro-britannico, Friedrich August von Hayek (1899-1992), presentato dall’on. Giuliano Urbani.
Von Hayek vi distingue radicalmente il liberalismo anglosassone – nato alla fine del secolo XVII e rappresentato, in Inghilterra, da David Hume (1711-1776), Adam Smith (1723-1790), Edmund Burke (1729-1797), che non a caso sarà il primo critico radicale della Rivoluzione francese, Thomas Babington Macaulay (1800-1859) e Lord John Francis Edward Acton (1736-1811) – da quello continentale, fondato sul razionalismo costruttivistico e legato a intellettuali come Voltaire (François Marie Arouet, 1694-1778), il marchese di Condorcet (Marie-Jean-Antoine-Nicolas Caritat, 1743-1794) e Jean-Jacques Rousseau (1712-1778). Le due forme di liberalismo si fondano, secondo von Hayek, su due concezioni filosofiche diverse: “La prima – quella anglosassone – poggia su una interpretazione evoluzionistica di tutti i fenomeni della cultura e dello spirito e sulla visione dei limitati poteri della ragione umana. La seconda si basa su ciò che è chiamato razionalismo costruttivistico, una concezione che tende a considerare tutti i fenomeni culturali come il prodotto di un preciso disegno, e sulla fiducia che sia possibile e desiderabile ricostruire conformemente ad un piano determinato ogni istituzione storica. La prima forma, di conseguenza, rispetta la tradizione e riconosce che ogni conoscenza e ogni civiltà riposano sulla tradizione, mentre il secondo tipo la disprezza poiché ritiene che un ragionamento sia di per se stesso in grado di esprimere una civiltà. (Si pensi all’asserzione di Voltaire: Se volete buone leggi, bruciate quelle che avete e datevene di nuove)”.
“Un risultato di questa differenza – conclude l’autore – è che il liberalismo della prima forma è perlomeno non incompatibile con le credenze religiose e spesso è stato sostenuto e persino sviluppato da uomini con una fede religiosa molto salda, mentre il liberalismo di tipo continentale è stato spesso contrario a tutte le religioni e politicamente in costante conflitto con le religioni organizzate”.
3. Il liberalismo in Italia
Ripercorrendo la storia intellettuale dell’Occidente – sempre secondo l’on. Zanone – è possibile trovare nell’umanesimo rinascimentale e nel razionalismo cartesiano posizioni anticipatrici del pensiero liberale, diffuso a livello popolare dalla propaganda svolta dal movimento illuminista e diventato “regime” con la Rivoluzione del 1789, esportata anche in Italia, dove, con l’idea di nazione, anima il Risorgimento o Rivoluzione italiana.
Fra i promotori della Rivoluzione italiana si trova il gruppo di intellettuali che dà vita, nel 1818, alla rivista Il Conciliatore: con altri, Luigi Porro Lambertenghi (1780-1860), Silvio Pellico (1789-1854), Federico Confalonieri (1785-1846), Giandomenico Romagnosi (1761-1835) e Giovanni Berchet (1783-1851). Si ispirano al Romanticismo, che in Italia non è tanto anti-illuministico quanto contrario al classicismo e che esalta il Medioevo italiano come alba della tradizione nazionale, quindi in chiave anti-austriaca. L’esperimento de Il Conciliatore è seguito da un altro gruppo di intellettuali, riuniti a Firenze attorno alla rivista L’Antologia, fondata nel 1821 da Gian Pietro Viesseux (1779-1863) – borghese, protestante, di famiglia ginevrina trasferitasi in Toscana, culturalmente illuminista -, di cui sono principali collaboratori il marchese Gino Capponi (1792-1876), Cosimo Ridolfi (1794-1865) e il sacerdote di idee liberali Raffaello Lambruschini (1788-1873).
Questo gruppo, unitamente ad alcuni cattolici detti neo-guelfi, come Alessandro Manzoni (1785-1873), costituisce la componente liberal-moderata della Rivoluzione italiana, erede dei riformisti del Settecento e dell’ambiente moderato che appoggiò i governi napoleonici in Italia dal 1796 al 1815. Nelle società segrete, molto diffuse negli anni della Restaurazione, i “moderati” incontrano la componente “democratica” della Rivoluzione italiana, derivante dal giacobinismo diffuso soprattutto nel Triennio Rivoluzionario (1796-1799) e tenuta viva soprattutto dall’azione settaria e clandestina di Filippo Buonarroti (1761-1837) e dei suoi seguaci. La distinzione fra moderati e democratici è all’origine della classica divisione degli artefici della Rivoluzione fra estremisti, Giuseppe Garibaldi (1807-1882) e Giuseppe Mazzini (1805-1872), e moderati, gli altri due “padri della Patria”, il conte Camillo Benso di Cavour (1810-1861) e re Vittorio Emanuele II di Savoia (1820-1878).
Liberale è poi tutta la classe dirigente post-unitaria, nella quale è peraltro sempre più sfumata la distinzione fra moderati, la destra storica, e democratici, la sinistra al potere dopo il 1876.
Nel 1898 il movimento liberale subisce una significativa divisione di fronte alla scelta fra l’alleanza con i cattolici in funzione antisocialista – dalla quale sarebbe nato il clerico-moderatismo e il Patto Gentiloni del 1913 – oppure la continuazione della lotta sui due fronti, contro il movimento cattolico e contro quello socialista. La prima scelta, compiuta da Giovanni Giolitti (1842-1928) in occasione delle elezioni del 1913, ma già praticata precedentemente in alcune competizioni elettorali locali, comporta la rinuncia ai connotati anticattolici del liberalismo risorgimentale e rappresenta una scelta politica antisocialista.
Dopo l’avvento al potere del fascismo, un certo numero di liberali trova un modus vivendi con il regime – entrando o rimanendo nell’apparato dello Stato o collaborando nella vita civile ed economica – anche se il principale intellettuale liberale, Benedetto Croce (1866-1952), rappresenta per tutto il ventennio una sorta di opposizione morale e intellettuale accettata dal fascismo, mentre l’altro grande intellettuale di scuola liberale, Giovanni Gentile (1875-1944), partecipa direttamente alla costruzione ideologica e politica del fascismo. Proprio Croce, dopo la caduta del regime fascista, sarà il punto di riferimento del ricostituito movimento liberale come pure il primo presidente del PLI, il Partito Liberale Italiano, eletto dal primo congresso del partito tenuto a Roma dal 29 aprile al 3 maggio 1946, il terzo della sua storia contando quelli svoltisi prima dell’instaurazione del regime fascista.
4. Il PLI, il Partito Liberale Italiano
Il PLI non svolgerà mai una funzione di grande rilevanza nel panorama politico italiano, né dal punto di vista intellettuale – con l’eccezione costituita dalla rivista della sinistra liberale Il Mondo, diretta da Mario Pannunzio (1910-1968), che dal 1949 rappresenta un riferimento per il laicismo nazionale – né dal punto di vista politico, non raggiungendo mai la quota del 10% dei voti espressi. Affianca la Democrazia Cristiana e gli altri partiti di centro nei governi centristi successivi alle elezioni del 18 aprile 1948, occupando la posizione più conservatrice, ma solo dal punto di vista economico, nella compagine governativa.
Infatti, per quanto riguarda i princìpi fondamentali della convivenza civile – vita, famiglia, religione -, i liberali sono spesso all’avanguardia nell’opera di scristianizzazione del paese, anche dopo la scissione del 1955, quando alcuni di essi, fra cui Eugenio Scalfari, lasciano il PLI per fondare il partito radicale, certamente su posizioni più laiciste. Fin dal luglio del 1967 il consiglio nazionale del partito approva un ordine del giorno favorevole all’introduzione del divorzio nell’ordinamento giuridico italiano ed è naturalmente schierato contro l’abrogazione referendaria – 12-13 maggio 1974 – della legge Fortuna-Baslini, che aveva introdotto il divorzio fra le leggi dello Stato il 1° dicembre 1970.
Come nel 1898, il movimento liberale si spacca in occasione delle elezioni del 27 marzo 1994, dopo che Tangentopoli aveva duramente colpito l’immagine del PLI con l’incriminazione del ministro della Sanità, on. Francesco De Lorenzo, e dell’ultimo segretario del partito, on. Renato Altissimo: alcuni uomini del PLI, come l’on. Zanone, si schierano fra i progressisti, mentre entrano in Forza Italia il professor Antonio Martino, figlio dell’on. Gaetano Martino (1900-1967), ministro liberale negli anni 1950, il professor Carlo Scognamiglio, rettore della LUISS, la Libera Università Internazionale degli Studi Sociali, e l’on. Alfredo Biondi. Il deputato e ministro liberale Raffaele Costa costituisce invece l’UDC, l’Unione di Centro, che entra a far parte del Polo delle Libertà.
Per approfondire: vedi Valerio Zanone, Il liberalismo moderno, in Storia delle idee politiche, economiche e sociali, diretta da Luigi Firpo, vol. VI, Il secolo ventesimo, 2a ed., UTET, Torino 1979, pp. 191-248; Friedrich August von Hayek, Liberalismo, trad. it., Quaderni del Buongoverno, n. 1, s.l. luglio 1994; e l’opera classica d’ispirazione liberale di Guido De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo, Laterza, Roma-Bari 1995; utile aggiornamento fattuale, in Carlo Vallauri, I partiti italiani da De Gasperi a Berlusconi, Gangemi, Roma 1994.