1. Il movimento liberalsocialista
Il Partito d’Azione (PdA) — costituito informalmente a Roma il 4 giugno 1942, in casa dell’avvocato Federico Comandini (1893-1967) — nasce da intellettuali legati soprattutto dal fatto di aver assunto durante il regime mussoliniano una posizione anti-fascista non riconducibile al Partito Comunista Italiano (PCI), nonché, in sostanza, dalla volontà di coniugare l’ideologia liberale con quella socialista. Nel PdA entrano esponenti di due aggregazioni già esistenti: Giustizia e Libertà (GL) e il movimento liberalsocialista, ai quali si aggiungerà un filone genericamente definito democratico-liberale, che fa capo a Ferruccio Parri (1890-1981) e a Ugo La Malfa (1903-1979).
Più che un movimento organizzato quello liberalsocialista è un ambiente d’intellettuali cresciuti durante il regime fascista negli spazi di libertà descritti da Ruggero Zangrandi (1915-1970) nel suo Il lungo viaggio attraverso il fascismo, del 1947. Aldo Capitini (1899-1968) e Guido Calogero (1904-1986) sono i principali punti di riferimento del movimento, che si forma a Pisa, dove Capitini è segretario della Scuola Normale fino al 1933, quando rifiuta di iscriversi al Partito Nazionale Fascista e deve lasciare l’incarico e tornare nella natia Perugia. I due personaggi erano complementari: mentre Capitini incarnava una volontà di «riforma» religiosa e politica in funzione anti-cattolica e anti-fascista, Calogero aggiungeva alla dimensione «religiosa» di Capitini l’attenzione al momento politico anche nel suo aspetto organizzativo.
2. Giustizia e Libertà
Mentre l’esperienza liberalsocialista matura nel Regno d’Italia, quella di GL si sviluppa all’estero, a Parigi e in Francia, dove uno dei suoi principali organizzatori, Carlo Rosselli (1899-1937), viveva in esilio dal 1929. Nel 1930 quest’ultimo pubblica il volume Socialismo liberale, in cui riprende tesi di Piero Gobetti (1901-1926), e nel 1932 esce il primo numero di Quaderni di Giustizia e Libertà. Gli esponenti di GL avevano in comune con i liberalsocialisti l’ispirazione da parte di autori revisionisti nei confronti del marxismo, come Henry De Man (1885-1953): secondo uno storico del PdA, Giovanni De Luna, l’eresia liberale dei liberalsocialisti e l’eresia socialista di GL differivano «[…] non solo nel loro impianto teorico e in alcune indicazioni programmatiche e di “metodo” (con il gradualismo riformista del primo contrapposto alla pratica diretta dell’“azione rivoluzionaria” del secondo), ma anche e soprattutto nella loro storia politica». Inoltre, mentre i liberalsocialisti erano cresciuti politicamente nel regime fascista, imparando anche a operare per gradi e senza provocare la repressione da parte delle forze di polizia, i dirigenti di GL rappresentavano l’anti-fascismo organizzato della prima ora e avevano subito la dura reazione a opera del regime giunta fino all’assassinio di Rosselli e di suo fratello Sabatino Enrico, detto Nello (1900), nel 1937. Scomparso Carlo Rosselli, GL viene diretta da Emilio Lussu (1890-1975), che, dopo un breve periodo di polemica con il PCI — coincidente con il tempo dell’accordo fra URSS e Germania nazionalsocialista, sancito dal Patto Molotov-Ribbentrop durato dall’agosto del 1939 al 1941 —, partecipa al Patto di Lione del 3 marzo 1943, che sostanzialmente segna l’accordo in funzione anti-fascista fra socialisti, comunisti e giellisti, anticipando di pochi mesi il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), in cui saranno presenti anche liberali e democratico-cristiani.
Nel frattempo aderiscono al PdA gruppi raccolti intorno a La Malfa e a Parri, genericamente definiti democratico-repubblicani: Parri sarebbe diventato responsabile militare del CLN, oltre che di GL, mentre La Malfa, che dal 1933 lavorava nell’ufficio studi della Banca Commerciale Italiana, chiamatovi dal direttore, Raffaele Mattioli (1895-1973), è uno dei più attivi nel processo che porta alla costituzione formale del PdA, avvenuta nel corso di un convegno tenutosi a Firenze nei primi giorni di settembre del 1943. Vi partecipano le tre componenti già ricordate, oltre a un gruppo di federalisti, fra i quali Altiero Spinelli (1907-1986), che peraltro avrebbe aderito al PdA solo nel dicembre del 1943. Nel corso dei lavori viene nominato un esecutivo composto da La Malfa, Riccardo Bauer (1896-1982), Francesco Fancello (1884-1970), Manlio Rossi Doria (1905-1988) e Oronzo Reale (1902-1988), mentre Lussu è cooptato successivamente.
L’azione politica del PdA ruoterà intorno ai sette punti programmatici pubblicati nel primo numero del giornale clandestino del partito l’Italia libera nel gennaio del 1943 e sostanzialmente avrà come obiettivo la rottura politica e istituzionale con lo Stato italiano pre-fascista, quindi la soluzione repubblicana e l’attribuzione al CLN di poteri straordinari nella gestione della crisi politica fino a quando si fosse verificata la possibilità di riunirsi di un’assemblea costituente che delineasse le caratteristiche del nuovo Stato.
In questo senso, la cosiddetta «svolta di Salerno», avvenuta nella primavera del 1944, con la quale il segretario Palmiro Togliatti (1893-1964) indicava al PCI la strada della collaborazione istituzionale con la monarchia e con gli altri partiti, con l’ingresso di propri ministri nel governo del maresciallo marchese Pietro Badoglio (1871-1956), rappresenta un grave smacco per il PdA, che rimane politicamente isolato, mentre lo sbocco della crisi politica successiva alla caduta del regime fascista, nei lavori dell’Assemblea Costituente e nella vita politica fino al 1947, lascia intendere che la Repubblica Italiana sarebbe stata caratterizzata dalla presenza, nonché dallo scontro, fra i tre principali partiti di massa: quello democristiano, quello socialista e quello comunista, con i quali il PdA non aveva mai voluto confondersi. Tuttavia, il suo isolamento è la conseguenza dell’individualismo di stampo illuministico della sua cultura politica, che aveva un approccio di tipo ideologico verso la realtà, in quanto non teneva sufficientemente conto dello stato reale della nazione, come invece si sforzava di fare Togliatti. Dopo la svolta di Salerno, comincia la crisi politica che avrebbe condotto il PdA all’auto-scioglimento. Caratterizzato da componenti molto diverse fra loro per ideologia e per provenienza politica, quando, con la fine della guerra, viene meno la tensione che univa le forze anti-fasciste, ciascuna componente del PdA ritornerà alle proprie origini. I primi a uscire dal partito sono Parri e La Malfa, dopo un primo congresso nazionale tormentato e ricco di colpi di scena, tenutosi a Roma dal 4 all’8 febbraio 1946, che definisce il PdA come partito socialista. Parri e La Malfa fondano un movimento repubblicano-democratico e poi confluiscono nel Partito Repubblicano Italiano (PRI). Dopo la loro uscita, il PdA si orienta decisamente verso una scelta socialista, anche se alcuni militanti tentano di rilanciare il partito come forza autonoma. I dirigenti del PdA devono scegliere in quale partito socialista confluire, dal momento che nel frattempo dal Partito Socialista Italiano (PSI) di Pietro Nenni (1891-1980) si era staccata una componente filo-occidentale e anti-comunista guidata da Giuseppe Saragat (1898-1988). Gli organi dirigenti del PdA, dopo lunghi ondeggiamenti, scelgono il PSI anche se, di fatto, si tratta dell’adesione della parte maggioritaria degli organi direttivi del partito, mentre la minoranza segue altre strade, sempre all’interno dell’area socialista. Il 20 ottobre 1947 il Consiglio Nazionale del PdA approva la confluenza nel PSI con 64 voti a favore e 29 contro: il PdA cessa giuridicamente di esistere.
3. L’azionismo nella storia politica e culturale d’Italia
Augusto Del Noce (1910-1989) più di ogni altro ha riflettuto sull’importanza dell’azionismo nella storia politica e culturale d’Italia. Nella sua ricostruzione della genesi del movimento, gli illuministi e i «giacobini» italiani — la cui storia come realtà organizzata comincia durante l’invasione delle truppe di Napoleone Bonaparte (1769-1821) e con il cosiddetto Triennio Giacobino, gli anni dal 1796-1799 —, costituiscono una setta di «esuli in patria» che vogliono «modernizzare» l’Italia attraverso una rivoluzione democratica e una «riforma religiosa», che colmino il presunto «ritardo» della nazione, dovuto alla mancata Rivoluzione protestante e all’influenza della Contro-Riforma cattolica. Questa «famiglia» ideologica, sostanzialmente composta d’intellettuali, viene reiteratamente rifiutata dal popolo — che, secondo loro, non li capisce e quindi li combatte —, come in occasione delle insorgenze antinapoleoniche e, in modo particolare, con il fallimento della Repubblica Napoletana nel 1799. Le correnti democratiche e repubblicane partecipano al Risorgimento, ma in posizione minoritaria grazie al prevalere della linea «moderata», che porta al potere la cosiddetta Destra Storica. L’occasione prossima per la nascita del moderno PdA — che ha legami ideali con quello risorgimentale, ma è un’altra cosa — è la Prima Guerra Mondiale, vissuta dai futuri azionisti come occasione per instaurare una democrazia rivoluzionaria e per liberarsi del Vaticano e della monarchia. Ma anche in questa circostanza la prospettiva rivoluzionaria azionista subisce una nuova sconfitta a causa dell’affermarsi del fascismo, che rinuncia alle primitive posizioni anti-clericali e anti-monarchiche per portare l’Italia alla Conciliazione del 1929. Da qui l’irriducibile anti-fascismo degli azionisti, peraltro sconfitti anche nel secondo dopoguerra, in cui l’Italia repubblicana sarà dominata dai partiti di massa, DC, PSI e PCI e nella sinistra prevarrà la scelta «moderata» del «partito nuovo» di Togliatti, che opterà per il dialogo con i cattolici e per la conquista dell’egemonia nelle istituzioni. Il PdA allora si scioglierà, ma i suoi uomini continueranno a elaborare cultura politica e a operare direttamente in parlamento, come La Malfa nel PRI e Riccardo Lombardi (1901-1984) nel PSI. Del Noce propone questa interpretazione nel 1964, quindi prima del Sessantotto, sottolineando il fallimento dei diversi tentativi degli azionisti di orientare la storia italiana.
Ma già, solo cinque anni dopo, durante quella rivoluzione culturale che fu appunto il Sessantotto, il filosofo pistoiese ipotizza che la decomposizione del marxismo addirittura avrebbe favorito il consolidamento di quella «società opulenta» e «borghese» che avrebbe voluto distruggere. E le sue parole sono tanto più importanti, se si pensa che sono state pronunciate nel 1969 e pubblicate nel 1970 nel volume L’epoca della secolarizzazione.
L’intuizione di Del Noce si può ridurre al quesito, cui gli studiosi devono ancora dare risposta, in che misura gl’intellettuali che elaborano la cultura politica del PdA ⸺ Norberto Bobbio (1909-2004), Leo Weiczen Valiani (1909-1999), Carlo (1910-1997) e Alessandro Galante Garrone (1909-2003), Luigi Salvatorelli (1886-1974), Gaetano Salvemini (1873-1957), Piero Calamandrei (1889-1956), Aldo Garosci (1907-2000), Adolfo Omodeo (1889-1946), Ernesto Rossi (1897-1967), Guido De Ruggiero (1888-1948), Franco Venturi (1914-1994) e altri ⸺ abbiano contribuito al progresso del processo di secolarizzazione avvenuto in Italia nel secondo dopoguerra. E, ancora, dato che sono fautori di una rivoluzione democratica, i cui presupposti ideologici non hanno radici nella cultura italiana, ma nella Riforma luterana e nell’Illuminismo francese e quindi questo scatena l’insofferenza popolare nei loro confronti, non si spiega perché la metà degli italiani attualmente si riconosca in una cultura progressista e, quindi, nelle sue espressioni politiche.
Per dar ragione del passaggio dal predominio della cultura crociana a quello della cultura azionista, Del Noce risale agli anni 1920 e 1930, quando Benedetto Croce (1866-1952) pubblica — nel 1928 — la Storia d’Italia dal 1871 al 1915 e — nel 1932 — la Storia d’Europa nel secolo XIX, nelle quali fa l’apologia dell’Italia e dell’Europa liberali, soprattutto del primo decennio del secolo XX. La fine del fascismo e l’accettazione dell’interpretazione liberale della storia da parte della DC di Alcide De Gasperi (1881-1954) portano al trionfo, anche politico, della tesi di Croce, cioè alla realizzazione di una società liberale in cui, nel popolo e nel suo costume, permane un «senso comune» con radici religiose — la cultura sintetizzata nell’espressione dello stesso Croce «perché non possiamo non dirci cristiani» —, radici sempre meno presenti nel modo di pensare del mondo intellettuale.
Ma la morte di Croce, nel 1952, la sconfitta politica e la morte di De Gasperi, nel 1954, segnano però il declino della cultura crociana e l’ascesa dell’ideologia azionista, che contenderà l’egemonia del Paese alla cultura gramsciana del PCI.
Marco Invernizzi
Per approfondire: vedi Elena Aga Rossi, Il movimento repubblicano Giustizia e Libertà e il Partito d’Azione, Cappelli, Bologna 1979, con numerosi documenti; e Giovanni De Luna, Storia del Partito d’Azione 1942-1947, Editori Riuniti, Roma 1997; di Augusto Del Noce sul tema dell’azionismo vedi, per esempio, La potenza ideologica del marxismo e la possibilità del successo del comunismo in Italia per via democratica, in Idem, I cattolici e il progressismo, a cura di Bernardino Casadei, Leonardo, Milano 1994, pp. 45-91; vedi pure Giacomo Noventa e l’«errore della cultura», in Idem, Il suicidio della rivoluzione, Rusconi, Milano 1978, pp. 19-119; come introduzione al pensiero di Del Noce sul problema dell’azionismo, vedi Massimo Tringali, Augusto Del Noce interprete del Novecento, Le Château Edizioni, Aosta 1997, pp. 151-159, e la postfazione di Norberto Bobbio, ibid., pp. 161-171.