Il governo italiano ha recentemente preso posizione in favore della resistenza iraniana contro il regime teocratico degli Ayatollah. Si segnala, inoltre, una iniziativa personale di un esponente della maggioranza, il senatore Giulio Terzi di Sant’Agata, che ha spezzato una lancia in favore dei Mujahedin del popolo, uno dei movimenti di resistenza. Ma quest’ultima iniziativa suscita qualche perplessità, perché si tratta di un movimento socialista.
di Stefano Nitoglia
Mentre continuano le proteste in Iran contro il regime teocratico islamista degli Ayatollah, che hanno abbondantemente superato il terzo mese, e la dittatura risponde con la feroce repressione poliziesca e le impiccagioni dei rivoltosi, l’Italia ha preso finalmente posizione. Il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, il 28 dicembre scorso ha convocato l’ambasciatore designato iraniano a Roma, Mohammad Reza Sabouri, «per manifestargli l’indignazione e la preoccupazione dell’Italia per quanto sta accadendo nel Paese». Nell’occasione, Tajani ha chiesto al diplomatico iraniano di trasmettere al suo governo la richiesta italiana di sospensione delle esecuzioni capitali, la fine della repressione violenta delle proteste e di aprire un dialogo con i manifestanti. Alle proteste si è unito il presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che ha definito «inaccettabile» quanto sta accadendo in Iran, prospettando una «azione più incisiva» della politica italiana nei confronti della Repubblica islamica. Le proteste italiane non sono state gradite dagli Ayatollah, che hanno a loro volta convocato l’ambasciatore italiano a Teheran, Giuseppe Perrone, definendo l’iniziativa italiana un’illecita intromissione nella politica interna dell’Iran e lasciando presagire ritorsioni economiche.
Si segnala, inoltre, un’iniziativa personale del senatore Giulio Terzi di Sant’Agata, presidente della commissione Politiche dell’Unione europea di Palazzo Madama ed ex-ministro degli Esteri nel governo Monti (2011-2012),il quale, in un articolo pubblicato il 29 dicembre sulla rivista online Formiche, ha spezzato una lancia in favore dei movimenti di resistenza iraniana, «primo tra tutti il Mek (Mujahedin-e Khalq, in italiano Mujahedin del Popolo, ndr), che insieme ad altri gruppi agisce sotto la guida del Consiglio nazionale della Resistenza iraniana e della sua presidente eletta Maryam Rajavi», auspicando un appoggio in favore del suddetto Mek: «Grazie ad un’ampia base di legittimazione politica e morale, la Resistenza iraniana – guidata dal Mek e dalla figura carismatica di Maryam Rajavi – rappresenta appieno l’essenza e il significato della rivolta in corso in Iran per un cambio di regime divenuto ineludibile».
In effetti, il programma della Rajavi, così come riportato da Sant’Agata, comprende molte cose buone: tra le proposte vi è il rifiuto del “Velāyat-e Faqih”, ovvero del governo della Guida suprema, concetto introdotto da Khomeyni; l’affermazione della sovranità del popolo, fondata sul suffragio universale e sul pluralismo; la libertà di parola, dei partiti politici, di riunione, di stampa e di internet; la separazione tra religione e Stato, libertà di culto e di fede. Purtroppo vi si trovano anche una non meglio definita «uguaglianza di genere» e la «protezione e riqualificazione dell’ambiente».
L’iniziativa dell’ex-ministro degli Esteri del governo Monti ha una sua logica, ed è quella di appoggiare un movimento che si ritiene sia organizzato e dotato di una leadership e che abbia alleanze con altri movimenti di resistenza anti-mullah. In effetti i Mujahedin del Popolo fanno parte del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, che si considera un parlamento e un governo in esilio, ma è tutt’altra cosa rispetto al quasi omonimo Consiglio Nazionale Iraniano del principe Reza Ciro Pahlavi, figlio dell’ultimo Scià Mohammad Reza Pahlavi (1919-1980). Il CNI è stato fondato nel 2013 dai monarchici del Partito Costituzionalista dell’Iran, gruppo di orientamento liberale, e comprende anche membri del Movimento Verde, il movimento delle proteste del 2009.
Vi sono alcuni esponenti della resistenza iraniana che contestano che il Mek abbia una rappresentatività all’interno dell’Iran e sostengono che esso goda di appoggi solo all’estero, in particolare nella UE, in Arabia Saudita, in Israele e negli USA, e non abbia il favore del popolo iraniano, che lo accusa di tradimento durante la guerra Iran-Iraq. Secondo questi esponenti, inoltre, il Mek avrebbe confidenti all’interno del sistema governativo e di sicurezza dello stato iraniano.
Non vanno, infine, dimenticate le origini islamo-marxiste del Mek, fondato nel 1965 da Mohammad Hanifnejad, Saied Mohsen e Ali-Asghar Badizadegan, studenti dell’Università di Teheran: i suoi leader divennero, in seguito, Massoud Rajavi, scomparso nel 2003 (c’è chi dice che sia morto di Aids; altri sostengono che sia ancora vivo e lanci dei messaggi politici di tanto in tanto) e ora Maryam Rajavi, sua moglie.
Ora il Mek si proclama di orientamento socialista democratico islamico, ma si sa che il lupo perde il pelo ma non il vizio. In questi casi, la prudenza è d’obbligo. Annalisa Perteghella, analista dell’ISPI, sulla rivista Ispionline invita, infatti, alla prudenza: «Sebbene nascano con un’ideologia marxista-islamista, e sebbene rimangano un movimento nei fatti molto più simile a una setta, a metà tra una formazione politica leninista e l’antica setta ismailita degli Assassini, oggi i MEK hanno una faccia pubblica che elogia i valori della laicità e della democrazia. La loro intenzione, dopo il rovesciamento del regime iraniano, è la creazione di un governo ad interim con a capo Maryam Rajavi – già nominata futura presidente dell’Iran – seguito da elezioni libere. Al di là della retorica però il modus operandi rimane profondamente autoritario: oltre al celibato forzato, i membri del gruppo non hanno accesso a giornali, radio o televisione, nessuno può criticare Rajavi. I membri vengono periodicamente sottoposti a sessioni di autocritica in cui vengono filmati mentre ammettono di avere tenuto comportamenti contrari alle leggi del gruppo; filmati che possono essere poi utilizzati contro di loro in un secondo momento. Organizzazioni quali Human Rights Watch hanno ampiamente documentato abusi dei diritti umani all’interno del gruppo» (Annalisa Perteghella, in https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/iran-chi-sono-i-mojaheddin-e-khalq-i-radicali-sostenuti-dai-falchi-usa-21065).
«Sulla base di questi elementi – prosegue Perteghella -, è possibile affermare che i MEK non rappresentano un’alternativa credibile, né desiderabile, all’attuale regime iraniano. La stessa popolazione iraniana non ne riconosce la legittimità; al contrario, esiste una profonda ostilità nei loro confronti dovuta all’ampio utilizzo di metodi terroristici e al supporto fornito a Saddam durante la guerra Iran-Iraq, oltre che al timore che una volta giunti al governo adottino metodi non dissimili da quelli utilizzati dall’attuale regime (…) Il rischio è che politici statunitensi come europei in buona o in cattiva fede si lascino affascinare dall’offensiva morale di questo gruppo che nella sua immagine pubblica predica l’emancipazione femminile e la democrazia e la laicità in Iran, ma che al suo interno nasconde una verità assai differente».
«Appoggiare la causa dei Mojaheddin – conclude l’analista – significa infatti rischiare di ripetere un errore già commesso in passato, vale a dire puntare su gruppi che si presentano come l’opposizione a un regime nemico e fornire loro strumenti e spazio di azione salvo poi ritrovarsi con un paese destabilizzato e un nuovo regime non migliore del precedente».