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Lo Stato moderno

7 Maggio 2024 - Autore: Francesco Pappalardo

1. Definizione

Ogni ordinamento politico — qualunque sia il suo nome — ha lo scopo di perseguire il bene comune della società che organizza, intervenendo per surrogare le manchevolezze naturali o storiche di tutte le possibili aggregazioni sociali, senza volersi sostituire a esse per principio. La società, a sua volta, è espressione della naturale socialità dell’uomo: perciò lo Stato, nel suo significato basilare, è per la società, e la società è per l’uomo.

Il termine «Stato», inteso con un significato molto generico, può indicare qualsiasi forma di organizzazione della società, ma viene utilizzato quasi sempre per far riferimento alla forma politica tipica delle società occidentali nell’Età Moderna. La dilatazione eccessiva del concetto ha fatto dimenticare che abbiamo conosciuto periodi della storia in cui non esistevano Stati, secondo l’accezione odierna, e che ciò potrebbe accadere anche in futuro. Parlare di «Stato» per l’epoca medioevale e per quelle precedenti, che prediligevano termini quali respublica, civitas, regnum, imperium, può essere, dunque, un anacronismo.

Lo Stato non costituisce l’unica forma di struttura politica possibile. Si può dire che rispetto al genere «sistema politico» esso rappresenta una delle specie possibili: non è «la» politica, ma soltanto una delle forme storiche in cui quest’ultima si realizza. Tale denominazione è stata estesa impropriamente — primi fra tutti il politologo Gianfranco Miglio (1918-2001) e il giurista e storico del diritto Pierangelo Schiera — a ogni forma di organizzazione del potere, inducendo alcuni studiosi ad aggiungere l’aggettivo «moderno» per ribadire l’assoluta peculiarità di questa forma specifica di assetto del potere. Il termine «moderno» non va inteso qui in senso storico-cronologico, cioè come qualcosa di diverso da «antico» o da «contemporaneo», ma con riferimento a contenuti di valore.

Il lemma «Stato», dunque, può essere utilizzato genericamente in un’ac­ce­zione «debole», con un ridotto numero di elementi caratterizzanti, tale da con­sentirne l’uso con riferimento a qualsiasi organizzazione politica. Con la lo­cuzione «Stato moderno», invece, non si indica sempli­ce­mente l’organiz­za­zione della società nel mondo contemporaneo, ma un organismo dotato di alcune caratteristiche che si presentano per la prima volta in Occidente: un’autorità centralizzata; la sovranità, nel senso di pienezza ed esclusività del potere all’interno di un territorio; il monopolio della violenza «interna» ed «esterna», e quello della produzione giuridica, con l’esclusione di tutte le norme prodotte dalle formazioni sociali diverse da quelle espressamente riconosciute dallo Stato.

2. «Prima» dello Stato

Le strutture politiche esistenti in Europa prima della Rivoluzione del 1789 erano caratterizzate — come ha bene illustrato il giurista e storico del diritto Paolo Grossi (1933-2022) — dalla contenuta capacità d’incidenza del governo centrale sulla società, non solo per la presenza di una pluralità di centri politici e giuridici autonomi e «sparsi» nella società stessa, ma anche per una predisposizione istituzionale del governo a limitare le proprie prerogative.

Il potere dei sovrani, quindi, era limitato: «in basso» dalle leggi fonda-men­tali del regno e dai diritti storici — personali, corporativi, municipali, ter­ritoriali —, fra i quali rientravano anche le libertà, frutto di consuetudini o di accordi e di concessioni a singoli e a corpi intermedi; e «in alto» dalla esistenza di norme superiori, cioè il diritto naturale, regola di quello positivo, e dai precetti religiosi a valenza e a sanzione individuale e collettiva, che avevano all’epoca una forza morale oggi inimmaginabile.

Il tratto caratteristico dell’organizzazione nell’età pre-rivoluzionaria era dato dalla presenza di realtà sociali con funzione politica solo in parte coincidenti con le istituzioni statali: ceti, feudi, comunità, città, nonché strutture di aggregazione a base parentale.

Lo stesso ordine giuridico era un universo complesso, fondato su un intrec­cio di relazioni familiari, clientelari, corporative, comunque micro-po­li­ti­che, ciascuna delle quali produceva «diritto». Il diritto assumeva un carattere essenzialmente consuetudinario, perché nasceva dal ripetersi durevole dei fat­ti, che acquisivano una carica normativa senza l’intervento di un pubblico po­tere: era compito dei giuristi decifrarlo e tradurlo in regole concrete e positive. Era emanazione della società, anziché derivare dalla volontà arbitraria di un sovrano o di un apparato di potere qualificabile come Stato, che voleva farsi creatore del diritto medesimo.

Per tutto il Medioevo e nel cosiddetto «antico regime» — i secoli dal XVI al XVIII, che presentano numerosi tratti di continuità con l’età medioevale — la politica non era distinguibile dal mantenimento della giustizia e consisteva nell’assicurare «a ciascuno il suo», sforzandosi di garantire un equilibrio fra le parti sociali senza mirare a cambiare l’ordine esistente, ritenuto naturale e immutabile.

Anche il cosiddetto assolutismo monarchico — sviluppatosi soprattutto nel secolo XVIII — recava questi limiti intrinseci, pur se l’impostazione del rapporto fra governati e apparato statale risultava sbilanciato a favore del secondo. Si può parlare di piena affermazione dello Stato solo dopo la Rivoluzio­ne francese e l’esperienza napoleonica, quando si realizzano in tempi mol­to brevi le linee di tendenza presenti nell’Europa di «antico regime».

3. Genesi e sviluppo

Non esiste una data di nascita dello Stato moderno. È certo, però, che a par­tire da un dato momento, variabile da Paese a Paese e con modalità differenti, ha avuto inizio una fase di graduale addensamento del potere politico e di una sua separazione dalle dinamiche della società.

Si tratta di un processo, accidentato e talora accidentale, frutto di contrattazioni e di compromessi con le altre realtà sociali, forse necessario negli sviluppi, ma non nelle premesse. Esso è il risultato di un duro e prolungato scontro di potere, che in alcune aree ha presentato alternative potenzialmente realizzabili, la cui importanza è stata a lungo sottovalutata nella ricostruzione storica: il modello imperiale, durato circa un millennio a partire dalla rinascita carolingia dell’anno 800; le leghe cittadine, come la Lega Lombarda e la Lega Anseatica; le confederazioni, prima fra tutte quella Elvetica; e i cosiddetti «piccoli Stati», caratterizzanti soprattutto l’area italiana e quella germanica, che hanno rappresentato realtà significative e non «scarti di lavorazione» dei processi di costruzione nazionale.

Questo processo, che prende l’avvio nei secoli compresi fra il XIV e il XVI, può essere descritto come l’esito di un doppio movimento compiuto dal sovrano e dalle élite al suo servizio: il primo verso l’esterno, per emancipar­si dalla struttura sovranazionale del Sacro Romano Impero e dall’autorità spi­rituale del Papato e il secondo verso l’interno, per ridimensionare progressivamente tutte le istituzioni minori — le organizzazioni sociali, le realtà cetuali e gli altri centri di potere esistenti in un dato territorio —, erodendo gli spazi di libertà di cui esse godevano. Ciò avveniva rispondendo a richieste di ordine e di pace sociale, che non coincidevano più con l’ammini­stra­zione di una retta giustizia ma s’identificavano con il superamento, a qualsiasi prezzo, delle guerre civili nate per motivi religiosi.

Molti sono stati i fattori che hanno contribuito alla nascita e all’afferma­zio­ne dello Stato moderno. Innanzitutto, la crisi della coscienza europea e l’i­ni­zio della secolarizzazione della politica. Lo «schiaffo di Anagni» — cioè, l’umiliazione inflitta nel 1303 a Papa Bonifacio VIII (1294-1303), per in­terposta persona, dal re capetingio Filippo IV il Bello (1268-1314) — è il momento emblematico della prima emancipazione del potere politico dal legame con una superiore autorità religiosa e quindi morale, che lo «giudica». La Riforma protestante e le guerre di religione del secolo XVI — conseguenti alla rottura della Cristianità — possono essere considerate matrici, o comunque punti di passaggio significativi, della nuova forma di organizzazione politica, favorendo anche la prevalenza di una visione tecnica e laicizzata del potere. La religione cessa di essere parte integrante della politica e la sovranità del principe, come istanza neutrale, è ritenuta l’unica in grado di conservare la pace, garantendo la quiete pubblica anche a costo di rinunciare alla verità. La costruzione di unità territoriali concorrenti fra di loro determina il moltiplicarsi delle guerre fra i nuovi organismi, con il conseguente aumento della fiscalità e la contestuale creazione di un apparato istituzionale in grado di disciplinare i comportamenti e di regolamentare i diversi ambiti della vita sociale e politica.

Non bisogna dimenticare, comunque, la lunga serie di resistenze, molto articolate, messe in atto nei confronti del nascente Stato moderno da parte di tutti gli strati della popolazione, che vedevano limitate le proprie prerogative e le proprie libertà. Le migliaia di rivolte verificatesi in tutta l’Europa — soprattutto fra la seconda metà del secolo XVI e l’intero secolo XVII — mostrano l’attaccamento del popolo e dell’aristocrazia ai propri diritti, tanto da potersi affermare che i «diritti dell’uomo» non sono affatto alla base dello Stato moderno, ma sono emersi proprio dalla resistenza nei confronti della sua ascesa.

Con la Rivoluzione francese lo Stato si attribuisce tutte quelle funzioni di erogazione e distribuzione del potere fino ad allora disseminate nel corpo so­ciale e nelle sue articolazioni giuridiche e istituzionali. Inoltre, assume come funzioni proprie ed esclusive la produzione delle leggi, la punizione dei rei, l’imposizione dei tributi, la conduzione delle guerre, il controllo di polizia e l’istruzione pubblica.

I corpi intermedi vengono combattuti in nome della libertà dell’individuo, ma lo spazio lasciato libero dal venir meno di quelle realtà viene subito occu­pato dallo Stato, che dilata il suo apparato negli ambiti della scuola, del­l’as­sistenza e della sanità. In una fase successiva lo Stato centralizzatore dà ini­zio alla statalizzazione delle attività di produzione, attraverso la creazione progressiva di un grande numero di monopoli di diritto e di fatto, nonché di oligopoli, in cui la «partecipazione» statale si inserisce in determinati settori produttivi in modo condizionante, soprattutto sulla scia del debordamento dell’intervento pubblico, in economia e non solo.

Si giunge così all’attuale «Stato del benessere» che veglia sul cittadino «dalla culla alla bara»; lo Stato dalla fiscalità ancora opprimente; lo Stato che si vorrebbe onnipotente, sfruttando le emergenze e i falsi dogmi del politi­cally correct.

Martedì, 7 maggio 2024


Per approfondire

Sulla la nozione di «Stato moderno», Gianfranco Miglio, Genesi e trasformazioni del termine-concetto «Stato», a cura di Pierangelo Schiera, Mor­cel­liana, Brescia 2007; P. Schiera, Lo Stato moderno. Origini e degenerazioni, CLUEB, Bologna 2004; e in Nicola Matteucci (1926-2006), Lo Sta­to moderno. Lessico e percorsi, il Mulino, Bologna 1997. Sull’or­di­na­men­to giuridico pre-statuale, Paolo Grossi,L’ordine giuridico medievale, La­terza, Roma-Bari 2006, e Mitologie giuridiche della modernità, Giuffrè, Milano 2001. William Doyle su L’antico regime, 1986, trad. it., Sansoni, Fi­renze 1988, con un’introduzione di Cesare Mozzarelli (1947-2004), Antico re­gime e nuove prospettive. Più complessivamente, mio, La parabola dello Stato moderno. Da un mondo «senza Stato» a uno Stato onnipotente, D’Et­to­ris Editori, Crotone 2022; e Giovanni Cantoni (1938-2020), Scritti sulla Rivoluzione e sulla nazione. 1972-2006, premessa e cura di Oscar Sanguinetti, Edizioni di «Cristianità», Piacenza 2023, che dà conto anche delle reazioni popolari allo Stato moderno nascente, inquadrabili in buona parte nella categoria dell’Insorgenza.

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