Quando una felice scelta di palinsesto, il 27 gennaio, permette di ricordare l’origine nazista dell’ideologia eutanasica
di Renato Veneruso
La celebrazione del Giorno della Memoria (27 gennaio) e della Giornata per la Vita (prima domenica di febbraio), pur cadendo a pochi giorni di distanza l’uno dall’altra, sembrano non avere molto altro in comune.
La riprogrammazione televisiva, in concomitanza con il Giorno della Memoria, nel clima di rievocazione della persecuzione nazionalsocialista degli Ebrei, del film Good – L’indifferenza del bene, una produzione anglo tedesca del 2008, offre, invece, interessanti spunti di riflessione che ne consentono di accomunarne lo spirito.
Il movie, tratto da una pièce teatrale del drammaturgo inglese C.P. Taylor, ha per protagonista John Halder, un docente di letteratura, interpretato da Viggo Mortensen (l’Aragorn de Il Signore degli Anelli di Jackson), inizialmente molto tiepido verso l’ascesa al potere del Partito nazionalsocialista, ne viene poi progressivamente attratto perché irretito dall’attenzione che alcuni dei suoi più alti esponenti mostrano per il suo romanzo pro-eutanasia, in cui l’autore ricostruisce la storia di una malattia incurabile e la morte, che da ultimo è procurata per porre fine a non più sopportabili sofferenze.
Il protagonista del film si iscrive al Partito, manda all’aria la sua condizione familiare, abbandonando la moglie nevrotica e la madre convivente, affetta da demenza senile, e si risposa con una giovane allieva, mantenendo i legami con il passato solo per il tramite del suo psicanalista, ebreo, di cui però perde i contatti dopo l’epurazione della Notte dei Cristalli. Solo durante la guerra ne ritroverà le tracce, che lo porteranno in un lager, dove scoprirà di essere arrivato troppo tardi, essendo stato l’amico già ucciso, come gli altri ebrei vittime della ‘Soluzione Finale’, il progetto di deliberata e organizzata eliminazione dell’elemento ebraico dal Reich, elaborato e approvato alla Conferenza di Wansee, tenutasi alla fine del gennaio 1942.
Colpisce, dunque, la felice intuizione della sceneggiatura di legare l’entusiasmo nazionalsocialista per l’eutanasia alla Shoah, che è tutt’altro che peregrina e posticcia. Il programma Aktion T4, approvato nel 1933, ben prima della Soluzione Finale e, anzi, ufficialmente chiuso il 1 settembre 1941, prevedeva la soppressione, sotto controllo medico, delle persone affette da malattie genetiche inguaribili e da handicap mentali (anche fisici, per i casi più gravi): vite, cioè, indegne di essere vissute, come dicevano i due autori principali del movimento eugenetico tedesco, Alfred Hoche e Karl Binding. L’Aktion T4 causò la morte procurata a un totale di persone computate tra le 60mila e le centomila e traeva ispirazione dall’ideologia della preservazione della “razza ariana” dalla contaminazione con “geni impuri”, applicando teorie eugenetiche che risalgono, nella loro originaria elaborazione, a Charles Darwin per il tramite di suo cugino, Francis Galton, con la pretesa di selezionare i caratteri genetici “positivi” ed eliminare quelli “negativi”. Il darwinismo sociale aveva trovato degli applicatori persino nella normativa di alcuni Stati USA (tra cui la California), nel Regno Unito e in Svezia sin dagli inizi del XX secolo. Fu introdotto anche nella Germania postbellica degli anni ’20 e, infine, trionfò nella Germania nazionalsocialista, fautrice del “vitalismo ariano” e della “purezza della razza”.
La volontà del Partito-Stato del Terzo Reich di imporre agli individui malati la morte per preservare la purezza del Volk, del popolo, è, in verità, ispirata alla medesima logica che in quegli stessi anni (proseguendo ben oltre) condusse l’URSS comunista alle “purghe” staliniane, prese nei confronti dei nemici – anche qui – del popolo (!!), in uno sforzo costruttivista di pulizia sociale e di lotta di classe contro chi minava le “progressive e magnifiche sorti” dello Stato social comunista. Il percorso sovietico si compirà con l’uccisione di cento milioni di persone risucchiate nell’universo concentrazionario dei GULag.
E’ evidente, allora, che il legame risiede nella comune considerazione, sia dei carnefici degli Ebrei che degli attuali fautori dell’eutanasia legale, che la vita non è un bene in sé, non costituisce diritto indisponibile, ma è meritevole di tutela solo e nella misura in cui chi ne è titolare o, peggio, lo Stato (o qualche altro organismo collettivo decisore) ritengano che lo sia.
Così, magari sotto le mentite spoglie – come, nel romanzo, del professor Halder – della compassionevole esigenza di porre fine alle indicibili sofferenze del malato terminale (non è forse questo il leit-motiv della propaganda di legalizzazione dell’eutanasia, così come fu il contrasto all’aborto clandestino e allo strazio delle povere madri che vi dovevano ricorrere ad aprire la strada all’aborto legale?), si introducono la prassi, prima, e la norma, poi, che consente di procurare la ‘dolce morte’ (mai ossimoro è stato più tale!) a tutti gli “scartati”. Spesso, si tratta piuttosto di imporre, come accade di fatto già nel Regno Unito, dove i protocolli sanitari del NHS – il National Health Service – prevedono di praticare le cure agli anziani assumendo come priorità il rapporto costi – benefici, in ragione della loro aspettativa di vita.
Forse, mai come quest’anno, l’abituale – ma mai sufficiente – funzione della celebrazione della Giornata per la Vita, che ribadisce la radicale ingiustizia dell’aborto, che uccide i bimbi ancora non nati nell’utero materno, deve accompagnarsi, in vista della campagna referendaria per l’abolizione dell’art. 579 del Codice penale (che persegue l’omicidio del consenziente) alla proclamazione dell’assolutezza del diritto alla vita e della sua indisponibilità, all’individuo come allo Stato. Affinché il Giorno della Memoria, celebrato contro ogni ideologia antiumana sviluppata sulla pretesa dell’uomo di sostituirsi a Dio, rammenti non solo l’Olocausto, ma anche la superiore dignità della persona umana, di ogni persona. Si cerchi una memoria pro vita.
Martedì, primo febbraio 2022