di Domenico Airoma
Non sono un teologo. E di questi tempi, ringrazio Iddio. Memore del monito dantesco, uso ripetermi: «Avete il Nuovo e ’l Vecchio Testamento e ’l pastore della Chiesa che vi guida; questo vi basti a vostro salvamento». Non sono tentato da sedevacantismo, dichiarato o simulato che sia. Alla scuola del fondatore di Alleanza Cattolica Giovanni Cantoni (1938-2020), resto convinto che Pietro è a Roma e che la fine del mondo è materia sottratta a ogni profezia, rimanendo molto più interessato alla fine del mio mondo. E proprio perché non vorrei presentarmi, in quell’ora fatale, in condizioni troppo malconce, sento il bisogno di elevare una preghiera, per il Papa e per la Chiesa.
Nel fare gli auguri in occasione dei 170 anni della rivista dei Gesuiti, il Regnante Pontefice ha scritto che la civiltà cattolica è quella del buon samaritano. L’affermazione, soprattutto per chi prova a prendere sul serio l’invito a instaurare omnia in Christo, e quindi opera per la maggior gloria di Dio anche sociale, riveste un rilievo speciale. E impone qualche domanda.
Cosa ha fatto il buon samaritano? Si è preoccupato, anzitutto, di soccorrere il malcapitato; ma non si è fermato lì. Lo ha accompagnato alla locanda e lo ha affidato all’oste perché si prendesse cura di lui. Sant’Agostino (354-430) spiega come nella figura del buon samaritano si debba vedere Gesù Cristo, il Salvatore; nella locanda, la Chiesa da Lui fondata; nell’oste, gli uomini di Chiesa. E noi laici? Dobbiamo sforzarci di seguire l’esempio del buon samaritano: non limitarci, cioè, all’assistenza materiale, ma porci come fine l’accompagnamento verso la Verità, cioè verso la Chiesa di Cristo. E fare in modo che le strade che conducono alla locanda siano ben pulite e libere, ovvero ‒ fuor di metafora ‒ fare in modo che le istituzioni e le leggi non ostacolino la conversione, ma la favoriscano. Tutto chiaro? Oggi un po’ meno, purtroppo.
In realtà, se ci si mette nei panni del malcapitato abbandonato sulle strade del mondo moderno, percosso e sfigurato da cinque secoli e più di acida corrosione relativistica e dissacrante, si è proprio sicuri che costui, pur avendo avuto la ventura di incontrare un buon samaritano che non voglia limitarsi all’accoglienza solo materiale, rimanga affascinato da una locanda dove sembra regnare, almeno a viste umane, conflitto e astio, del tipo di quelli che gli hanno causato sofferenza nel corpo e nello spirito? E siamo proprio sicuri che, una volta entrato con la convinzione che quello è l’unico luogo dove le sue ferite possano trovare definitiva guarigione, rimanga indifferente se un oste, e dei più importanti, inviti qualche ospite, pur turbolento e maleducato, a scegliersi un’altra locanda?
Insomma, cosa resta da sperare al povero malcapitato che, nonostante tutto, si ostini a rimanere nella locanda? Non credo altro se non che il Gestore ricordi a tutti lo scopo per il quale il Proprietario ha edificato quel luogo. Questa è anche la mia preghiera.
Che il Papa ricordi a tutti che abbiamo «bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale, che non vuol dire passare a una pastorale relativistica». Che il Regnante Pontefice rimanga fermo nel proposito di seguire il monito del suo santo predecessore, san Paolo VI (1897-1978): «Preferisco dare la vita prima di cambiare la legge del celibato». Che, in definitiva, Pietro ci confermi nella fede. E che nessuno ci induca in tentazione. Soprattutto, che Iddio non ci abbandoni alla confusione.
Mercoledì, 29 gennaio 2020