Dopo aver subito i devastanti effetti della guerra civile intraislamica, debilitato dall’acida corrosione della cancel culture, l’Occidente sperimenta una fase nuova del suo declino, quella della guerra civile, dagli esiti imprevedibili e dalla sconfitta certa; a prescindere da chi vincerà sul campo
di Domenico Airoma
C’è stato un tempo in cui l’Occidente, sicuro di avere oramai chiuso i conti con la propria storia, ha subito gli effetti di una guerra civile che ha attraversato il mondo islamico, diviso fra coloro che predicavano una conquista violenta dei resti della Cristianità e altri che si accontentavano di una invasione per via demografica e culturale. Quel conflitto, di certo non ancora concluso, ha registrato la sua più eclatante manifestazione pubblica l’11 settembre del 2001, con la strage del World Trade Center, a New York, allorquando l’Occidente, in tutte le sue declinazioni geografiche, ha preso atto sanguinosamente che il mondo post-1989 non era fatto di un solo colore. Quel che sta accadendo venti anni dopo descrive una condizione nuova, una fase diversa dell’agonia di una civiltà, quella occidentale, che davvero sembra ormai giunta al termine della sua storia.
Vi è da premettere che gli effetti di quella guerra civile intra-islamica sono andati ben al di là della tragedia delle Twin Towers, facendosi sentire non solo a livello militare (mettendo in discussione il primato americano), ma anche e soprattutto sul piano politico e culturale, dove si è assistito al naufragio del progetto diretto all’esportazione del modello democratico relativistico e all’acuirsi del senso di colpa degli eredi della civiltà costruita dall’uomo occidentale e cristiano, accusato di essere il responsabile irredimibile di ogni nefandezza storica.
Paradossalmente, dunque, quella guerra civile intra-islamica che l’Occidente ha vissuto come guerra di civiltà ha accelerato il processo di corruzione, tutto interno a quel che residuava della propria civiltà, portandola ad uno stadio quasi suicida, ben rappresentato dalla cancel culture. In questa condizione di profonda lacerazione, l’esplosione del conflitto ucraino segna l’avvio di una fase peculiare, quella di una guerra civile non più solo culturale, ma propriamente guerreggiata.
Che vi fossero diversi focolai rivelatori di una sempre più aspra conflittualità già prima dell’invasione russa, è evidente, solo che si considerino i tanti segnali di insofferenza, anche tumultuosi, che hanno contraddistinto la vita sociale e politica di molti Paesi di cultura occidentale anche prima della pandemia. L’invasione russa dell’Ucraina determina, tuttavia, un passaggio qualitativo non di poco conto, irrompendo sulla scena l’opzione militare come modalità di risoluzione dei conflitti.
Quando i contrasti si acuiscono e sfociano in violenta contrapposizione, le responsabilità – come è ovvio – non sono mai da una sola parte e, nel caso dell’Occidente, vi è una parte, quella che oggi siede a Bruxelles e alla Casa Bianca, che si ritiene eticamente superiore; il che, nella migliore delle ipotesi, impedisce di guardare al reale in tutta la sua complessità e, soprattutto, di vedere le proprie colpe. Tuttavia, chi ha scelto di intraprendere la strada militare porta con sé una grave responsabilità, non solo per i costi umani di una tale decisione, ma anche e soprattutto per gli scenari che possono dischiudersi nell’immediato futuro. Nel momento in cui si mette sul banco delle opportunità a disposizione dei vari contendenti anche quella militare, il rischio che si diffonda il contagio è molto alto, con l’esplosione di ulteriori conflitti.
Se, in altri termini, due fratelli si azzuffano (pur se l’uno in risposta all’aggressione dell’altro e, quindi, senza mettere in discussione il diritto alla legittima difesa), il serio pericolo è che il cattivo esempio venga seguito da altri, specialmente se i fratelli non si riconoscono più come figli dello stesso Padre. Vi è, in particolare, un ulteriore profilo che caratterizza questa guerra fra coloro che furono cives di una stessa civiltà. È indubbio che Russia e Ucraina appartengano alla storia di quell’Europa che deve imparare di nuovo a respirare con due polmoni, quello occidentale e quello orientale. Quel richiamo, peraltro, a Mosca come la “terza Roma” sta ad indicare, al netto di ogni strumentalizzazione nazionalistica e della grave ferita inferta all’unità della Chiesa nel 1054, il legame con una storia ed una cultura, oltre al desiderio di rimanere in quel mondo. Il problema è che la Russia quel mondo vuole rifarlo e vuole rifarlo con la guerra. Le civiltà però non si ricostruiscono a colpi di fucile.
Una guerra mossa da una tale finalità finisce per demolire quel che rimane della casa comune; quello, cioè, da cui non si può prescindere se si vuole mettere mano ad una ricostruzione duratura. Una guerra siffatta finisce con l’essere una guerra alla civiltà (pur se a quello che di essa rimane) più che di civiltà, mossa non da barbari estranei, ma da chi fa parte di quel mondo e ne condivide, in larga parte, la storia. Il rischio, perciò, è che anche chi ha avviato la guerra guerreggiata finisca per soccombere sotto le rovine, di fatto suicidandosi. Perché, oltre ad essere una guerra civile, essa presenta caratteri di preoccupante in-civiltà, destinati a scavare solchi profondi e a scatenare reazioni incontrollabili, la cui pericolosità sembra tragicamente sottovalutata.
Che fare, dunque? Dinanzi a due fratelli che fanno a botte, la prima cosa da fare è cercare di farli smettere. Si tratta, però, di volerlo, e seriamente. E si tratta, altrettanto seriamente, di affrontare il tema di una pace il più possibile giusta. Chi abbia la forza e l’autorità per farli smettere, è, poi, questione non semplice ed assai delicata. Anche su questo piano sperimentiamo il fallimento dell’ideologia globalista di Bruxelles e di Washington, che vestono sempre più i panni di chi aizza i contendenti piuttosto che dei pacieri. Così come vi è da dubitare, e non poco, del pacifismo ideologico di ritorno di quelli che, (ri)animati da un mai sopito riflesso antiamericano, tifano per la sconfitta della NATO e, in definitiva, per la definitiva ecclissi dell’Occidente.
Non è escluso, pertanto, che, ancora una volta, come nel 1989 con il social-comunismo, ad imporre la fine delle ostilità possano essere i popoli, sia ad ovest che ad est, sfiniti da una guerra che aggrava una condizione economica già resa problematica dalla pandemia.
A questo si deve lavorare, ciascuno facendo la propria parte. Di questo saremo chiamati a rispondere.
Una cosa è certa, e l’ha ricordata anche Papa Francesco: questa guerra distrugge tutti, a prescindere da chi vincerà sul campo; e non è certamente la strada che ha indicato la Vergine a Fatima.
Giovedì, 28 aprile 2022