di Daniele Fazio
Da non pochi studiosi sono state avanzate similitudini tra il nostro tempo e la fine dell’Impero romano. Una categoria interpretativa feconda risiede nel termine “crisi”. Essa ha una radice spirituale e morale, quale fondo da cui si dipanano i vari aspetti sociali, culturali, politici ed economici. Con originalità, Giovanni Cantoni (1938-2020) ha fatto riflettere sul fatto che la società cristiana medievale – nata dopo la “crisi” dell’antichità – sta in mezzo a due paganesimi: il primo è quello del precursore e il secondo è tragicamente quello dell’apostata, ossia la secolarizzazione che il mondo occidentale vive a partire dalla modernità, che è un’ulteriore crisi.
Se il nostro cambiamento d’epoca ha affinità con la fine del mondo antico pagano si possono analizzare le analogie in negativo con i tempi antichi da un lato, mentre dall’altro si devono anche rintracciare quelle possibilità rispetto ad una nuova accoglienza del messaggio cristiano. V’è da precisare, altresì, che tale itinerario esclude ogni forma di automatismo, ma dipende soprattutto dalla generosità missionaria dei cristiani che, senza ambiguità e vivendo la gioia del Vangelo, hanno da dedicarsi all’opera della nuova evangelizzazione, che sin da Papa san Paolo VI (1963-1978) è richiamata dal magistero.
In tal senso, dopo aver seguito il ritmo storico-fenomenologico della speranza – dal naufragio alla possibilità della rinascita – è bene chiederci quale sia la sua essenza. Essa è una virtù teologale, ossia un dono che Dio infonde alla volontà umana perché viva nel desiderio della beatitudine eterna e ricerchi e abbia i mezzi più opportuni per giungere ad essa. La speranza ha a che fare con il fine ultimo della nostra vita ed è in intima connessione con la fede. Richiamando la Lettera agli Ebrei, la fede viene definita quale sostanza delle cose che si sperano e prova delle cose che non si vedono (cfr. Eb 11,1). Senza la fede, infatti, non avremmo alcuna visione del nostro destino e del Regno a cui Dio ci chiama. Coltivare la speranza vuol dire avere una predisposizione a vivere già su questa terra come cittadini del cielo.
Ciò risponde all’aspirazione umana alla felicità indicando il punto di arrivo e rafforzando l’uomo, in tutte le vicissitudini della vita, nella tenace consapevolezza che nessuna afflizione può togliere la pienezza della gioia che si compirà nel Paradiso. La grazia della speranza perfeziona così ed innalza la stessa natura umana in ordine al raggiungimento della felicità. Emblema di tale virtù è certamente Maria, la madre del Signore, che non perse mai la fede e così tenne viva la speranza, nonostante l’atroce morte del Figlio. Tutte le sofferenze di questa vita – compresa la morte –, infatti, sono assolutamente relativizzabili al pensiero di ciò che aspetta l’uomo con la beatitudine eterna. Questo mondo è un esilio in attesa della patria definitiva.
Dunque, la speranza da un lato rifugge la disperazione, quale totale sfiducia di conseguire la salvezza e dall’altro rifugge la presunzione, che si mostra o come pretesa gnostica di salvarsi da se stessi o come pretesa di salvarsi ottenendo la misericordia di Dio a buon mercato, cioè senza aver rinunciato al peccato intraprendendo il cammino della conversione. Ha sintetizzato Josef Pieper (1904-1997): «la speranza è la risposta esistenziale del cristiano, resa possibile da Dio, alla realtà rivelata che Cristo è – nel vero senso della parola – la “via” alla vita eterna» (La luce delle virtù. Alla ricerca dell’immagine cristiana dell’uomo, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 1999, p. 38).
In questo senso, la speranza più che provocare un atteggiamento passivo ed intimistico ci spinge alla ricerca continua di tutti quei mezzi che ci possono aiutare a raggiungere il fine ultimo: «quanti sperano nel Signore rinnovano le loro forze, mettono ali d’aquila, corrono senza stancarsi e avanzano senza fatica»(Is. 40,31).
Dalla speranza come virtù teologale personale, scaturisce anche quella speranza storica che nel ritmo dei tempi – tra la prima venuta di Cristo e la sua seconda venuta – tiene vivo il desiderio dei cristiani a costituire delle felici esperienze di vita virtuosa in comune, di cui la società cristiana medievale è stata una concreta espressione. Questa è la riprova che diversamente da quanto asserito dal pensatore marxista Ernst Bloch (1885-1977), la speranza cristiana non è individualista, illusoria ed utopica, ma porta in sé i germi di un vero rinnovamento sociale, senza incorrere in alcuna presunzione ideologica di voler creare società perfette sulla terra. La “speranza storica”– corroborata dalla pazienza storica – ci invita a considerare che se una cristianità è esistita, un’altra cristianità può nascere. Ciò significa vivere per la gloria di Dio, anche sociale.
Giovedì, 30 aprile 2020