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Campeggio Superiori 2025 – Il tema


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La proposta

Perché scegliere di camminare per sei giorni avendo come méta Norcia, un piccolo paese dell’Umbria? Perché Norcia racchiude un tesoro che merita di essere scoperto.

Nel 480 d.C. lì nasce san Benedetto, che anche sui libri di scuola si studia come Padre del monachesimo occidentale. In realtà Benedetto, è molto di più per noi: egli infatti anzitutto ci assomiglia e poi ha qualcosa da dirci.

Ci assomiglia, perché nasce in un’epoca di grande cambiamento politico e culturale, molto simile ai giorni nostri. Benedetto vive gli anni immediatamente dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente, quel mondo ordinato che sembrava destinato a durare per sempre, e ne vede andare in frantumi i valori e le istituzioni che lo avevano sostenuto per più di mille anni. Di fronte a questo “mondo che muore”, Benedetto non cede al pessimismo o alla rassegnazione bensì scopre la sua vocazione di fondatore di una nuova realtà, il monachesimo, destinato a gettare le fondamenta per un nuovo mondo: la Cristianità europea.
Non è difficile vedere una similitudine tra gli anni vissuti da san Benedetto e i nostri, caratterizzati dalla totale crisi di quei valori cristiani che hanno reso grande l’Europa e dato origine alla Cristianità.

Camminare fino a Norcia non è, però, un solo atto di devozione al Santo, c’è qualcosa di più in gioco! san Benedetto, infatti, ha qualcosa da dire a ciascuno di noi.

«Obsculta fili», ossia “Ascolta, figlio”, proprio così san Benedetto inizia la sua Regola, dove è racchiusa l’essenza del monachesimo.
Ecco quindi che il nostro pellegrinaggio sarà un rispondere all’appello di san Benedetto, un mettersi in ascolto e scoprire che quell’uomo vissuto 1500 anni fa, aveva scoperto la via verso la felicità, che è la via dell’incontro con Gesù e l’aveva insegnata ai suoi monaci (e a tutti noi), trasmettendo loro uno stile di vita, mostrando come vivere ogni aspetto della quotidianità, riportando l’ordine in un mondo in preda al caos.

Un’unica condizione chiede san Benedetto, per parlare anche a noi è «Obsculta, fili», ossia di metterci in ascolto, lasciando il tran tran quotidiano, facendo silenzio e mettendoci in cammino…


San Benedetto da Norcia
(480- 574)

Benedetto nacque nella piccola città di Norcia verso il 480 d.C., in un periodo storico particolarmente difficile. Quattro anni prima (476) era formalmente finito l’Impero romano d’Occidente con la deposizione dell’ultimo imperatore Romolo Augustolo.

Studente a Roma, constatò di persona lo stato di grave decadenza in cui versava l’antica capitale dell’Impero; da essa il giovane Benedetto fuggì via inorridito ritirandosi nel silenzio e nella preghiera nei boschi dell’alta valle dell’Aniene, ai confini tra il Lazio e l’Abruzzo.

Una comunità di monaci di Vicovaro lo volle come abate, ma l’esperimento fu un fallimento: ben presto quei monaci, preoccupati per l’eccessiva austerità e disciplina di Benedetto, tentarono di avvelenarlo.

Dopo questa esperienza, egli intraprese una nuova forma di vita monastica: nella zona di Subiaco, sull’esempio di ciò che aveva fatto duecento anni prima in Egitto san Pacomio, organizzò un gruppo di monaci, suddiviso in dodici comunità di dodici monaci: ciascuna comunità aveva un proprio superiore, mentre Benedetto conservava la direzione generale. L’invidia di un prete, che non gradiva l’accorrere della gente con ricchi doni ai piedi del Santo, costrinse Benedetto ad abbandonare quei luoghi con il gruppo dei suoi discepoli più fidati.

Fra di essi vi erano giovani dell’aristocrazia romana, come Mauro e Placido figli di senatori, ma anche goti e figli di schiavi, gente umile e rozza: per tutti Benedetto era il maestro nella “scuola del divino servizio” (questa è la definizione che egli dà del monastero nella sua Regola). Così Benedetto gettava le basi di una unità tra barbari e latini molto profonda, perché fondata sulla fratellanza universale insegnata dal Vangelo.

Allontanatosi da Subiaco, Benedetto si diresse a Cassino, sulla cui altura fondò, nel 529, il monastero di Montecassino destinato a diventare il più celebre in Europa. Là avvenne la sua morte, tra il 543 ed il 555 d.C., in una data che l’antica tradizione ha fissato al 21 Marzo.

Due o tre decenni dopo la sua morte i longobardi attaccarono Montecassino e vi compirono la prima delle memorabili distruzioni che scandiscono, come tappe, la storia di quell’abbazia. I monaci scampati al disastro si rifugiarono a Roma portando con sé il testo della Regola, quasi certamente autografo di san Benedetto. Da loro stessi il papa san Gregorio Magno apprese la vita del grande santo e ce ne trasmise il racconto nel secondo libro dei suoi Dialoghi unica fonte storica in nostro possesso per conoscere la vita di san Benedetto.

La Regola benedettina con le sue esigenze di ordine, di stabilità, di sapiente equilibrio fra preghiera e lavoro, si impose ben presto a tutto il monachesimo occidentale e fu seguita in tutti i monasteri europei.

San Benedetto divenne così uno dei santi più popolari e venerati ed apparve a tutti come l’uomo suscitato da Dio per portare la pace là dove erano state seminate le distruzioni e la morte.

Così nel 1947, Pio XII lo chiamò «Padre dell’Europa» e il 24 ottobre 1964, in coincidenza con la consacrazione della basilica di Montecassino, ricostruita dopo la distruzione della seconda guerra mondiale, Paolo VI lo proclamò «Patrono d’Europa».


Alla scuola dei monaci

Testo tratto dall’intervento di Don Roberto Spataro SDB, pubblicato su Cristianità n. 423 (2023). Testo completo disponibile QUI.

(…) Il monastero nasce da uno spirito contro-rivoluzionario. Di fronte al crollo del diritto romano — e dunque della legge naturale che ne fu il fondamento — e di fronte all’imbarbarimento della vita quotidiana, nelle sue strutture materiali e nelle sue consuetudini morali, i monaci vollero creare delle relazioni buone, con Dio, con il prossimo, con sé stessi. Anzitutto, la regola benedettina ci appare un’applicazione saggia e realistica della legge morale naturale e della theologia perennis, che parte dalla considerazione che esistono princìpi «non negoziabili» e modelli virtuosi che fungono da costante riferimento oggettivo alla costruzione, alla conservazione e allo sviluppo dei monasteri: il primato di Dio, l’or­dine gerarchico e istituzionale, la dignità di ogni uomo, monaco, pellegrino, villico, la concordia generale per il raggiungimento del bene comune, la sacralità del lavoro per orientare la creazione alla sua finalità, nello spirito di un’autentica ecologia integrale e antropocentrica, l’im­prescindibilità dell’educazione a una vita buona. L’elenco è naturalmente parziale, ma ci appare subito solido e profondamente umano. Quegli antichi contro-rivo­luzionari si opposero al processo di decadenza delle fatiscenti strutture materiali e immateriali dell’Impero romano d’Occidente, che collassò sotto la pressione dei popoli germanici e le insidie della parte bizantina, riproponendo un modello culturale convincente, ragionevole, umanizzante, antico eppure nuovo, perché adattato alle circostanze.

(…) Il monastero antico è un luogo dove tutto si svolge ordinatamente, secondo una disposizione gerarchica, improntata a un saggio principio di sussidiarietà in vista del bene comune della comunità e del mondo che attorno ad essa gravita, integrata da una solidarietà con le istituzioni esterne, che scatta pure con i dinamismi virtuosi previsti al suo interno. È veramente un luogo dove la dottrina sociale ante litteram ha trovato una sua non irrilevante applicazione. Da questa organizzazione sociale è bandita la fretta, causa ed effetto di agitazione interiore e, dunque, di dispersione e di lacerazione. Un ritmo semplice e solenne allo stesso tempo avvolge il tempo dell’otium orante nel coro e nei negotia ivi praticati, che resero i monasteri le cellule di un’economia a misura d’uomo per molti secoli. Una sorta di sovrana tranquillità impedisce che le occupazioni sovrastino dominatrici del pensiero e dell’azione. Giorno e notte, ore e periodi, scorrono placidamente nel monastero, scanditi dal suono della campana, voce di Dio che assegna un tempo ad ogni cosa e che, come salutare monito, richiama la destinazione eterna di ogni momento e di ciò che lo riempie. 

(…) Non è un caso che la rivoluzione protestante e quella illuministico-francese, quella social-comunista e quella nichilista, ingaggiando una lotta implacabile al monachesimo, in­compreso, osteggiato, abbattuto, abbiano introdotto una visione orizzontale della storia sospesa fra la negazione del passato e il balzo verso il futuro, dimentiche della densità del momento presente per amare Dio con atti seminati nel tempo, i cui frutti saranno pienamente raccolti nell’eter­nità. La rivoluzione ha fretta di raggiungere i suoi illusori obiettivi, s’in­quieta per le resistenze che incontra e le combatte aspramente, è intrinsecamente in uno stato di agitazione che bypassa il presente, è asfitticamente priva del respiro dell’eternità e si dimena tentando di accaparrare violentemente un futuro che non esiste se non nell’ideologia. 

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